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Il cielo sereno, verdeggiante, suggeriva l'intensità del blu lapislazzuli. Più avanti la distesa di massi si estendeva a sudovest verso le lande sterili e queste si arrendevano alle dune. Per mezz'ora i due camminarono in silenzio, separati da cinque metri e dai propri pensieri. Il sole di Hyperion era sospeso, piccolo e brillante, alla loro destra.

— Le dune diventano più ripide — disse Lamia, mentre superavano a fatica un'altra cresta e scivolavano lungo il pendio opposto. La sabbia calda già le riempiva le scarpe.

Sileno si fermò e col fazzoletto di seta si asciugò il viso. Il berretto floscio, viola, gli pendeva basso sulla fronte e sull'orecchio sinistro, ma non lo riparava. — Sarebbe più facile seguire il terreno duro, a nord di qui. Vicino alla città morta.

Lamia si schermò gli occhi e guardò in quella direzione. — Perderemo almeno mezz'ora, facendo il giro.

— Perderemo più di mezz'ora, tirando dritto. — Si sedette sulla duna e bevve un sorso d'acqua. Si tolse il mantello, lo piegò e lo infilò nello zaino più grosso.

— Cos'hai lì dentro? — domandò Lamia. — Lo zaino sembra pieno.

— Non sono cazzi che ti riguardino, donna.

Lamia scosse la testa; si strofinò le guance e sentì il bruciore delle scottature. Non era abituata a stare a lungo al sole e per giunta l'atmosfera di Hyperion filtrava poco gli ultravioletti. Si frugò in tasca, trovò un tubetto di crema solare e se ne spalmò un poco sulla pelle. — Va bene, facciamo il giro — disse. — Seguiamo il crinale finché non avremo superato le dune peggiori, poi tagliamo in linea retta verso il Castello. — Le montagne si stagliavano all'orizzonte, sembravano non avvicinarsi mai. Le vette innevate erano un tormento, con la promessa di brezze fresche e di acqua fredda. La Valle delle Tombe non era più invisibile, nascosta dalle dune e dalle pietraie.

Lamia spostò il peso degli zaini, girò a destra e, metà scivolando, metà camminando, scese la duna sabbiosa.

Quando sbucarono dalle dune fra le basse ginestre spinose e l'erba aghiforme della cresta, Martin Sileno non riuscì a staccare gli occhi dalle rovine della Città dei Poeti. Lamia aveva tagliato a sinistra, girando intorno alle rovine ed evitandole tutte, a parte le pietre delle autostrade semisepolte che circondavano la città e altre strade che s'inoltravano nelle lande sterili fino a scomparire sotto le dune.

Sileno rimase sempre più indietro; alla fine si fermò e si sedette su di una colonna caduta che un tempo sorreggeva la porta dalla quale gli operai androidi passavano ogni sera al termine del lavoro nei campi. Ora i campi non esistevano più. Gli acquedotti, i canali e le strade erano solo accennati da pietre cadute, depressioni della sabbia o ceppi levigati di alberi che un tempo costeggiavano un corso d'acqua o davano ombra a una stradicciola.

Martin Sileno usò il berretto per asciugarsi il viso, mentre fissava le rovine. La città era ancora bianca… bianca come ossa lasciate scoperte dalla sabbia mutevole, bianca come denti di un teschio color terra. Da dove sedeva, Sileno vide che parecchi edifici erano come li ricordava dall'ultima volta, più di un secolo e mezzo prima. L'Anfiteatro dei Poeti, mai terminato, era regale anche in rovina, un bianco Colosseo di un altro mondo, invaso di rampicanti del deserto e di edera sgargiante. Il grande atrio era aperto al cielo, le gallerie erano ridotte in macerie… non a opera del tempo, ma a causa delle sonde e delle lance termiche e delle cariche esplosive usate dalle inutili guardie di sicurezza di re Billy il Triste nei decenni seguiti all'evacuazione della città. Volevano uccidere lo Shrike. Volevano usare l'elettronica e i rabbiosi raggi di luce coerente per uccidere Grendel dopo la devastazione del salone dell'idromele.

Martin Sileno ridacchiò e si sporse, stordito a un tratto dal caldo e dalla stanchezza.

Vedeva la grande cupola della Sala Comune, dove aveva consumato i pasti, prima con l'allegra brigata di centinaia di artisti, poi appartato, nel silenzio, con pochi altri rimasti per ragioni imperscrutabili e non registrate, quando Billy si era già trasferito a Keats, e infine da solo. Proprio da solo. Una volta aveva lasciato cadere una coppa e l'eco era risuonata per mezzo minuto sotto la cupola segnata dai rampicanti come da graffiti.

"Da solo con i Morlock" pensò Sileno. "Ma neppure in compagnia dei Morlock, alla fine. Soltanto della mia musa."

Con un frastuono improvviso, una ventina di colombe bianche scaturì da una nicchia nel cumulo di torri in rovina che era stato il palazzo di re Billy il Triste. Sileno le guardò volare in cerchio nel cielo surriscaldato e si meravigliò che fossero sopravvissute nei secoli, lì al limitare del nulla.

"Se posso farlo io, perché non loro?"

C'erano ombre, nella città, chiazze di dolce penombra. Sileno si domandò se i pozzi fossero ancora buoni, se i grandi bacini sotterranei formatisi prima dell'arrivo delle navi coloniali umane fossero ancora colmi d'acqua dolce. Si domandò se il tavolino da lavoro in legno, un pezzo antico proveniente dalla Vecchia Terra, si trovasse ancora nella stanzetta dove aveva scritto gran parte dei Canti.

— Cosa c'è? — Brawne Lamia era ferma accanto a lui.

— Niente. — Sileno socchiuse gli occhi e la fissò. La donna sembrava un albero tozzo, una massa di radici scure e robuste, di corteccia bruciata dal sole, di energia impietrita. Cercò di immaginarla sfinita… il tentativo stancò lui. - Ho riflettuto — disse. — Perdiamo il tempo, a fare tutta la strada fino al Castello. Nella città ci sono dei pozzi. E probabilmente anche scorte di viveri.

— Ah-ha — disse Lamia. — Il Console e io l'avevamo pensato e ne abbiamo discusso. Da generazioni la città morta ha subito saccheggi. Di sicuro i pellegrini allo Shrike hanno ripulito i magazzini, un mucchio di anni fa. Non possiamo fare conto sui pozzi… la falda acquifera si è spostata, i serbatoi idrici sono inquinati. Andiamo al Castello.

Sileno sentì crescere la rabbia, per l'insopportabile arroganza della donna, per la convinzione di poter assumere il comando in qualsiasi circostanza. — Vado a fare un sopralluogo — disse. — Forse risparmieremo ore di cammino.

Lamia si mosse fra lui e il sole. I riccioli neri splendettero della corona di una eclissi. — No. Se sprechiamo tempo qui, non riusciremo a tornare prima di buio.

— Vai avanti, allora — sbottò il poeta, sorprendendosi delle proprie parole. — Sono stanco. Controllerò il magazzino dietro la Sala Comune. Forse ricorderò la posizione di depositi che i pellegrini non hanno mai scoperto.

Vide la tensione del corpo, quando la donna prese in esame l'idea di trascinarlo in piedi e spingerlo di nuovo fra le dune. Avevano percorso poco più di un terzo della strada per le alture dove iniziava la lunga salita fino al Castello. I muscoli di Lamia si rilassarono. — Martin — disse la donna — gli altri dipendono da noi. Per favore, non piantare casino.

Sileno rise e si appoggiò alla colonna caduta. — Vaffanculo — replicò. — Sono stanco morto. Tanto, toccherà a te portare quasi tutto il peso, e lo sai. Sono vecchio, donna. Più vecchio di quanto tu non creda. Lasciami riposare un poco. Forse troverò del cibo. Forse scriverò qualcosa.

Lamia si sedette sui talloni accanto a lui e toccò lo zaino del poeta. — Ecco cosa ti porti dietro. Le pagine del tuo poema. I Canti.

— Naturale.

— E pensi ancora che la vicinanza dello Shrike ti permetterà di terminarli?

Sileno scrollò le spalle, con la sensazione che il caldo e lo stordimento gli turbinassero intorno. — Quell'affare è un fottuto assassino, un Grendel di lamiera forgiato all'inferno — disse. — Ma è la mia musa.

Lamia sospirò, guardò a occhi socchiusi il sole che cominciava a calare verso le montagne, poi la valle da cui erano giunti. — Torna laggiù — disse piano. — Nella valle. — Esitò un attimo. — Ti accompagno e poi vado al Castello.