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Sileno era giunto alla parte più difficile e più entusiasmante del poema, la scena dove i conflitti infuriavano tra mille paesaggi, intere civiltà erano state distrutte e rappresentanti dei Titani avevano chiesto tregua per incontrarsi e negoziare con i gravi eroi olimpici. In quest'ampio panorama avanzavano Saturno, Iperone, Cotto, Giapeto, Oceano, Briareo, Mimo, Porfirione, Encelado, Reto e altri… le loro ugualmente titaniche sorelle Teti, Febe, Teia e Climene… e dall'altra parte i tratti dolenti di Giove, di Apollo e della loro genia.

Sileno non conosceva la conclusione di questo poema fra i più epici. Ora continuava a vivere solo per terminare il racconto… aveva fatto così per decenni. I sogni giovanili di fama e di ricchezza erano spariti lavorando come apprendista del Verbo (aveva guadagnato fama e ricchezza oltre misura, e questo aveva rischiato di ucciderlo, aveva ucciso davvero la sua arte) e per quanto sapesse che i Canti erano l'opera letteraria più bella della sua epoca voleva solo terminarli, per conoscere egli stesso la conclusione e per mettere ogni strofa, ogni verso, ogni parola nella forma più elegante, più chiara, più bella possibile.

Ora scriveva febbrilmente, quasi folle di desiderio di terminare il lavoro che per lungo tempo aveva ritenuto interminabile. Le parole e le frasi scorrevano dall'antiquata penna all'antiquata carta; le strofe balzavano alla vita senza sforzo, i canti trovavano la propria voce e si terminavano da soli senza bisogno di revisione, di pausa per l'ispirazione. Il poema si dispiegava con velocità sconvolgente, con rivelazioni sorprendenti, con bellezza da mozzare il fiato, sia nelle parole sia nelle immagini.

Sotto la bandiera di tregua, Saturno e l'usurpatore, Giove, si confrontarono al tavolo delle trattative, una lastra di marmo tagliato a spigolo vivo. Il dialogo fu epico e semplice insieme; le giustificazioni per l'esistenza e le spiegazioni per la guerra crearono il dibattito più bello dai tempi del Dialogo meliano di Tucidide. All'improvviso qualcosa di nuovo, di assolutamente non programmato da Martin Sileno in tutte le lunghe ore di riflessione senza ispirazione, entrò nel poema. Tutti e due i re degli dèi espressero paura per un terzo usurpatore, una terribile forza esterna che minacciava la stabilità del regno dell'uno e dell'altro. Sileno guardò, completamente stupefatto, i personaggi creati in mille e mille ore di sforzi sfidare la sua stessa volontà, stringersi la mano e stabilire un'alleanza contro…

Contro che cosa?

Il poeta esitò, bloccò la penna, si rese conto di vedere a stento la pagina. Da un po' di tempo scriveva nella penombra e ora il buio era sceso del tutto.

Sileno tornò in sé permettendo al mondo di precipitarsi di nuovo intorno a lui, un processo simile al ritorno ai sensi dopo un orgasmo. Ma la discesa dello scrittore al mondo era più dolorosa, al momento del ritorno, fra una scia di nubi di gloria che si dissipavano rapidamente nel flusso mondano di banalità sensoriali.

Sileno si guardò intorno. La vasta sala da pranzo era buia, a parte il bagliore capriccioso delle stelle e di remote esplosioni che penetrava dai vetri e fra l'edera in alto. I tavoli erano semplici ombre; le pareti, distanti trenta metri in ogni direzione, erano ombre più scure merlettate dalle tenebre varicose delle liane del deserto. All'esterno della sala da pranzo, il vento della sera si era alzato, vociava ora più forte, a solo di contralto e di soprano cantati dalle travi spaccate e dagli squarci nella cupola in alto.

Il poeta sospirò. Nello zaino non aveva torce a mano. Aveva portato solo acqua e i Canti. Sentì lo stomaco brontolare per la fame. "Dov'è, quella maledetta di Brawne Lamia?" Ma appena lo pensò, capì d'essere lieto che la donna non fosse tornata a prenderlo. Lui aveva bisogno di restare in solitudine per terminare il poema… a quel ritmo, gli sarebbe bastato un giorno, forse solo quella notte. Qualche ora, e avrebbe terminato il lavoro della vita, pronto a riposare un poco e a godere delle piccole cose di ogni giorno, le banalità della vita che per decenni ormai erano state solo un'interruzione del lavoro che non avrebbe potuto completare.

Martin Sileno sospirò di nuovo e cominciò a sistemare nello zaino pagine manoscritte. Da qualche parte avrebbe trovato luce… avrebbe acceso un fuoco, a costo di usare come combustibile gli antichi arazzi di re Billy il Triste. Avrebbe scritto all'aperto, alla luce della battaglia spaziale, se necessario.

Strinse in mano le ultime pagine e la penna; si girò a cercare l'uscita.

Qualcuno era fermo con lui nel buio della sala.

"Lamia" pensò Sileno, mentre sollievo e delusione facevano a pugni tra loro.

Ma non era Brawne Lamia. Sileno notò la distorsione, la massa superiore e le gambe troppo lunghe, il gioco della luce delle stelle su carapace e spine, l'ombra di braccia sotto le braccia e soprattutto il bagliore color rubino di cristallo acceso dall'inferno, nel punto dove dovevano esserci gli occhi.

Sileno emise un gemito e tornò a sedersi. — Non adesso! — gridò. — Sparisci, maledizione ai tuoi occhi!

L'alta ombra si avvicinò senza rumore di passi sulla fredda ceramica. Il cielo s'increspò di energia rosso sangue e ora il poeta vide le spine e le lame e le spire affilate.

— No! — gridò Martin Sileno. — Mi rifiuto. Lasciami stare.

Lo Shrike venne più vicino. La mano di Sileno si mosse, alzò di nuovo la penna e scrisse, sul margine inferiore dell'ultima pagina: È ORA, MARTIN.

Il poeta fissò le parole appena scritte, soffocò l'impulso a sogghignare come un demente. Per quanto ne sapeva, lo Shrike non aveva mai parlato… non aveva mai comunicato con nessuno. Se non tramite i mezzi appaiati del dolore e della morte. — No! — gridò di nuovo. — Ho del lavoro da fare. Prendi un altro, maledizione a te!

Lo Shrike avanzò ancora di un passo. Il cielo pulsò di silenziose esplosioni al plasma; riflessi gialli e rossi, simili a rivoli di vernice, corsero lungo il petto e le braccia argento vivo della creatura. La mano di Martin Sileno si contorse, scrisse di traverso sul messaggio precedente: È ORA, MARTIN, ADESSO.

Sileno strìnse al petto il manoscritto, tolse dal tavolo l'ultima pagina per non scrivere più niente. Mostrò i denti, in un rictus orribile, e quasi sibilò contro l'apparizione.

ERI PRONTO A CAMBIARE POSTO CON IL TUO MECENATE, scrisse la sua mano sul tavolo stesso.

— Non ora! — gridò il poeta. — Billy è morto! Lasciami terminare. Per favore! — Nella sua lunga, lunga vita Martin Sileno non aveva mai implorato. Ora implorò. — Ti prego, ti prego! Lasciami solo terminare!

Lo Shrike avanzò di un passo. Era così vicino che la parte superiore del corpo deforme bloccò la luce delle stelle e mise in ombra il poeta.

NO, scrisse la mano di Martin Sileno; e poi la penna cadde, mentre lo Shrike protendeva braccia infinitamente lunghe, mentre dita infinitamente acuminate penetravano fino al midollo nelle braccia del poeta.

Martin Sileno urlò, quando fu trascinato fuori della sala da pranzo. Urlò, quando vide sotto i piedi le dune, quando udì lo scorrere della sabbia mossa dalle sue stesse grida, quando vide l'albero che s'alzava dalla vallata.

L'albero era più largo della valle, più alto delle montagne che i pellegrini avevano superato; i rami superiori parevano arrivare allo spazio. L'albero era acciaio e cromo, i rami erano spine e ortiche. Esseri umani lottavano e si contorcevano su quelle spine… migliaia e decine di migliaia. Nella luce rossa del cielo morente, Sileno si concentrò al di là della propria sofferenza e riconobbe alcune figure. Erano corpi, non anime o altre astrazioni, e chiaramente pativano le sofferenze di un'esistenza distrutta dal dolore.

È NECESSARIO, scrisse la mano del poeta sul materiale gelido e rigido del petto dello Shrike. Sangue colò su argento vivo e sabbia.