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Keats sorrise, agitò la testa per il dolore. Lo sforzo di respirare parve rumore di vento in un mantice rotto. — Come ragni nella tela — mormorò — ragni nella tela. Tessono… lasciano che noi tessiamo per loro… poi ci legano come salami e ci prosciugano. Come mosche catturate da ragni nella tela.

Hunt smise di scrivere per ascoltare meglio quei vaneggiamenti che parevano privi di senso. Poi capì. — Mio Dio — mormorò. — Sono nella rete di teleporter.

Keats cercò di tirarsi a sedere, afferrò con forza terribile il braccio di Hunt. — Lo riferisca al suo capo, Hunt. Dica a Gladstone di strappare la Rete. Ragni nella tela. Dio uomo e dio macchina… devono trovare l'unione. Non io! — Cadde di nuovo sui cuscini e si mise a piangere in silenzio. — Non io!

Keats dormì un poco, nel pomeriggio, anche se era un assopimento più vicino alla morte che al sonno. Il minimo rumore svegliava il poeta moribondo e lo faceva lottare per respirare. Al tramonto Keats era troppo debole per espettorare e Hunt lo aiutò a chinare la testa sopra la bacinella in modo che la forza stessa di gravità gli ripulisse la bocca e la gola di muco sanguinolento.

Diverse volte, quando Keats cadeva in momenti di sonno agitato, Hunt andò alla finestra, e una volta al portone in fondo alle scale, per guardare nella piazza. Una sagoma alta e spigolosa era ferma nelle ombre più fitte dalla parte opposta della piazza, accanto alla base della scalinata.

Quella sera, Hunt stesso si appisolò un poco, seduto rigidamente sulla poltrona dura accanto al letto di Keats. Si svegliò da un sogno in cui gli sembrava di cadere e allungò la mano per riprendere l'equilibrio: Keats, sveglio, lo fissava.

— Ha mai visto una persona morire? — domandò Keats, fra deboli ansiti per respirare.

— No. — Hunt pensò che c'era un'espressione bizzarra, nello sguardo fisso del giovanotto, come se Keats guardasse lui ma vedesse un altro.

— Allora la compatisco — disse Keats. — In quale pericoloso pasticcio si è messo, per me. Ora si faccia forza: non durerà molto.

Hunt fu colpito non solo dal coraggio e dalla gentilezza di queste parole, ma anche dall'improvviso cambiamento di pronuncia, dal piatto inglese standard della Rete a uno più antico e interessante.

— Sciocchezze — disse con calore, sforzandosi di mostrare un entusiasmo e un'energia che non sentiva. — Prima dell'alba saremo fuori da questa situazione. Appena fa buio uscirò di nascosto e andrò alla ricerca di un teleporter.

Keats scosse la testa. — Lo Shrike la prenderà. Non permetterà a nessuno di aiutarmi. Il suo ruolo è quello di badare che io sfugga a me stesso tramite me stesso. — Chiuse gli occhi, mentre il respiro diventava più sibilante.

— Non capisco — disse Leigh Hunt, prendendogli la mano. Immaginò che si trattasse di altri vaneggiamenti provocati dalla febbre, ma poiché era una delle poche volte, negli ultimi due giorni, in cui Keats era pienamente cosciente, Hunt pensò bene che valesse la pena continuare nello sforzo di parlargli. — Cosa significa sfuggire a lei stesso tramite lei stesso?

Keats mosse le palpebre e aprì gli occhi. Erano castani e troppo lucidi. — Ummon e gli altri cercano di farmi accettare la divinità, Hunt. Esca per catturare la balena bianca, miele per afferrare la mosca finale. L'Empatia in fuga troverà in me la propria casa… in me, signor John Keats, un metro e cinquanta… e così la riconciliazione inizia, giusto?

— Quale riconciliazione? — Hunt si sporse più vicino, cercando di non alitargli in viso. Keats sembrava essersi raggrinzito fra le lenzuola e il groviglio di coperte, ma il calore che emanava da lui pareva riempire la stanza. Il viso era un livido ovale nella luce morente. Hunt si rendeva vagamente conto di una striscia dorata di sole riflesso che si muoveva sulla parete appena sotto il punto di incontro con il soffitto, ma gli occhi di Keats non lasciarono mai quell'ultima macchia di giorno.

— La riconciliazione fra uomo e macchina, fra Creatore e creatura — disse Keats e cominciò a tossire, fermandosi solo dopo avere lasciato gocciolare catarro arrossato nel catino che Hunt reggeva per lui. Tornò a distendersi, ansimò un momento e aggiunse: — Riconciliazione fra l'umanità e le razze che essa ha cercato di sterminare, fra il Nucleo e l'umanità che esso ha cercato di cancellare, fra il Dio penosamente evolutosi dal Vuoto Legante e i suoi antenati che cercarono di annullarlo.

Hunt scosse la testa e smise di scrivere. — Non capisco. Lei può diventare questo… questo messia… semplicemente lasciando il letto di morte?

Il livido ovale del viso di Keats si agitò sul guanciale, in un movimento che forse era un improvviso surrogato di risata. — Tutti potevamo diventarlo, Hunt. La follia è il massimo orgoglio dell'umanità. Accettiamo la nostra sofferenza. Facciamo spazio ai nostri figli. Questo ci è valso il diritto di diventare il Dio che abbiamo sognato.

Hunt serrò i pugni, esasperato. — Se lei può farlo, se può divenire questo potere, lo faccia. Ci tolga da qui!

Keats chiuse di nuovo gli occhi. — Non posso. Non sono Colui Che Viene, ma Colui Che Viene Prima. Non il battezzato, ma il battista. Merde, Hunt, io sono ateo! Perfino Severn non riuscì a convincermi, mentre annegavo a morte! — Lo afferrò per la camicia, con una ferocia che spaventò Hunt. — Scriva questo!

E Hunt cercò l'antiquata penna e la carta ruvida, scribacchiò in fretta per non perdere le parole che ora Keats mormorava:

Una meravigliosa lezione sul tuo viso muto:
enorme conoscenza fa di me un dio.
Nomi, imprese, grigie leggende, orribili eventi, ribellioni,
maestosità, voci sovrane, sofferenze,
creazioni e distruzioni, tutte insieme
mi si riversano nella cavità vuota del cervello
e mi deificano, come se avessi bevuto
vino allegro o vivido elisir incomparabile,
e così fossi divenuto immortale.

Keats visse per altre tre ore dolorose, nuotatore che di tanto in tanto emergeva dal mare di sofferenza a trarre un respiro o a mormorare pressanti sciocchezze. Una volta, molto dopo il buio, tirò Hunt per la manica e gli mormorò abbastanza lucidamente: — Quando sarò morto, lo Shrike non le farà alcun male. Aspetta me. Forse non c'è un modo per tornare a casa; ma non le farà niente, mentre lei cerca. — E di nuovo, proprio mentre Hunt si chinava ad ascoltare se il respiro gorgogliava ancora nei polmoni del poeta, Keats si mise a parlare e continuò fra gli spasmi, finché non ebbe dato a Hunt precise istruzioni per la propria sepoltura nel cimitero protestante di Roma, nei pressi della piramide di Caio Cestio.

— Sciocchezze, sciocchezze — continuò a borbottare Hunt, come se recitasse un mantra, serrando la mano ardente del giovane.

— Fiori — mormorò Keats poco dopo, appena Hunt accese la lampada sul cassettone. Teneva gli occhi spalancati e fissava il soffitto, con un'espressione di pura meraviglia infantile. Hunt lanciò un'occhiata in alto e vide le sbiadite rose gialle dipinte in riquadri azzurri sul soffitto. — Fiori… sopra di me — mormorò Keats, fra gli sforzi di respirare.

Hunt, fermo alla finestra, fissava le ombre al di là della Scalinata Spagnola, quando il respiro rauco e penoso vacillò, si bloccò, e Keats ansimò: — Severn… alzami! Muoio.

Hunt si sedette sul letto, sollevò il poeta. Il calore fluì dal piccolo corpo che pareva pesare niente, come se la reale sostanza dell'uomo fosse stata bruciata via. — Non spaventarti. Fatti forza. E ringrazia Dio che sia giunta! — ansimò Keats. E il terribile respiro rauco cessò. Hunt aiutò Keats a distendersi in posizione più comoda, mentre il respiro tornava a un ritmo normale.

Cambiò l'acqua nel catino, inumidì uno straccio pulito e tornò al letto, solo per trovare Keats morto.