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Wednesday si ficcò in bocca cinque o sei fette di pancetta tutte insieme, masticò, si ripulì la bocca con il dorso della mano. «Non l’ho perso» disse. «So esattamente dove si trova.»

«Bene, qual è il programma?»

Wednesday assunse un’aria pensierosa. Mangiò qualche fetta di prosciutto di un bel rosa acceso, staccò un frammento di carne dalla barba e lo mise nel piatto. «Il programma è il seguente: domani sera incontriamo alcune persone di spicco nei loro rispettivi settori… non lasciarti intimidire dal loro atteggiamento. Ci incontreremo in uno dei posti più importanti del paese. Dopo di che offriremo loro da bere e da mangiare. Li devo assoldare nell’impresa.»

«E dove si trova questo posto così importante?»

«Vedrai, ragazzo mio. Ho detto che è uno dei più importanti. Le opinioni in merito divergono, com’è comprensibile. Ho avvisato i colleghi. Sulla strada ci fermiamo a Chicago perché ho bisogno di procurarmi dei soldi. Ospitare come dobbiamo ospitare noi richiederà più contanti di quanti io ne disponga al momento. Poi andiamo a Madison.» Pagò e uscirono per tornare al parcheggio del motel dall’altra parte della strada. Wednesday lanciò le chiavi a Shadow.

Arrivati alla superstrada lasciarono la città.

«Ti mancherà?» domandò Wednesday. Stava rovistando in una cartelletta piena di carte geografiche.

«La città? No. Non ci ho mai vissuto veramente. Da bambino non vivevo mai a lungo nello stesso posto, e quando sono arrivato a Eagle Point avevo vent’anni. È la città di Laura.»

«Speriamo che ci rimanga» disse Wednesday.

«Era un sogno» rispose Shadow. «Non dimenticarlo.»

«Ben detto. Un atteggiamento sano, il tuo. Te la sei chiavata, ieri notte?»

Shadow trattenne il respiro. Poi: «Non sono affari tuoi. Comunque no».

«Avresti voluto?»

Shadow non rispose e continuò a guidare verso nord, in direzione di Chicago. Wednesday ridacchiò e cominciò a tirare fuori le carte geografiche, ad aprirle e ripiegarle, prendendo ogni tanto un appunto su un blocco di carta gialla con una grossa penna a sfera d’argento.

A un certo punto finì. Ripose la penna e appoggiò la cartelletta sul sedile posteriore. «La cosa buona degli stati verso cui stiamo andando» disse, «Minnesota, Wisconsin e paraggi, è che c’è il tipo di donna che mi piaceva da giovane. Con la pelle chiara e gli occhi azzurri, i capelli quasi bianchi, le labbra color vinaccia e i seni tondi e pieni sotto la cui pelle si vedono scorrere le vene come in un buon formaggio.»

«Ti piacevano solo da giovane?» domandò Shadow. «Mi sembrava che te la stessi spassando, ieri notte.»

«Sì.» Wednesday sorrise. «Ti piacerebbe conoscere il segreto del mio successo?»

«Le paghi?»

«Niente di così volgare. No, il segreto risiede nel fascino. Nella pura e semplice magia del fascino.»

«Fascino, eh? Be’, dicono che o ce l’hai o non ce l’hai.»

«La magia si impara» rispose Wednesday.

Shadow sintonizzò la radio su un canale che trasmetteva vecchi successi e ascoltò canzoni che erano famose ancora prima che nascesse. Bob Dylan cantò di una pioggia molto forte che stava per cadere e Shadow si chiese se fosse caduta, a quel punto, o se si trattasse di un evento non ancora compiuto. La strada davanti a loro era deserta e sotto il sole del mattino i cristalli di ghiaccio sull’asfalto scintillavano come diamanti.

Chicago arrivò piano piano, come un’emicrania. Stavano ancora attraversando l’aperta campagna quando una cittadina qualsiasi si trasformò impercettibilmente in una disordinata propaggine di periferia, e la periferia diventò città.

Parcheggiarono davanti a un tozzo edificio con la facciata di arenaria nera. Avevano ripulito il marciapiede dalla neve. Entrarono nell’atrio del palazzo e Wednesday schiacciò il primo pulsante sul citofono di metallo. Niente. Schiacciò ancora. Poi provò a premere anche gli altri pulsanti, che corrispondevano alle case di altri inquilini, senza ottenere risposta.

«È scassato» disse desolata una vecchia che stava scendendo le scale. «Non funziona. Abbiamo chiamato l’amministratore per chiedergli quando viene ad aggiustarlo, e quando viene a sistemare l’impianto di riscaldamento, ma lui non se ne interessa, va a svernare in Arizona perché ha i polmoni delicati.» Sembrò a Shadow che la donna avesse un forte accento dell’Europa dell’Est.

Wednesday fece un profondo inchino. «Zarja, mia cara, posso dirti che trovo il tuo aspetto indicibilmente bello? Radioso, direi. Il tempo non passa, per te.»

La vecchia signora lo guardò con occhi fiammeggianti. «Non ti vuole vedere. Neanch’io ti voglio vedere. Tu porti guai.»

«Per questo non vengo mai, a meno che non sia di estrema importanza.»

La donna sbuffò. Portava una sporta di corda e indossava un vecchio cappotto rosso chiuso fino al mento. Guardò Shadow con aria sospettosa.

«L’omone chi è?» chiese. «Un altro dei tuoi sgherri?»

«Tu mi fai un cattivo servizio, buona signora. Questo gentiluomo si chiama Shadow. Lavora per me, sì, ma nel tuo interesse. Shadow, ti posso presentare l’adorabile signorina Vechernjaja Zarja?»

«Molto piacere» disse Shadow.

La donna guardò in su come un uccellino. «Shadow» disse. «Un buon nome. Quando le ombre si allungano, quello è il mio tempo. E tu sei un’ombra lunga.» Lo squadrò da sotto in su, poi gli sorrise. «Mi puoi baciare la mano» disse, e gli tese la mano fredda.

Shadow si piegò per sfiorare quelle dita sottili. Sul medio c’era un grosso anello d’ambra.

«Bravo ragazzo» disse. «Stavo andando dal droghiere. Vedi, sono l’unica a portare a casa dei soldi. Le altre due non sono capaci di predire la sorte. Non sono capaci perché dicono sempre la verità, e non è la verità ciò che la gente vuole sentire. È brutta, la verità, e rende la gente infelice, perciò non tornano. Invece io sono capace di mentire, dico quello che vogliono sentire. Perciò guadagno. Rimanete a cena?»

«Mi piacerebbe» rispose Wednesday.

«Allora dammi qualche soldo per comperare da mangiare» disse lei. «Sono una donna orgogliosa ma non sono stupida. Le altre sono più orgogliose di me e lui poi è il più orgoglioso di tutti. Perciò dammi i soldi e non dire che me li hai dati.»

Wednesday aprì il portafoglio e tirò fuori una banconota da venti dollari. Vechernjaja Zarja gliela sfilò dalle dita ma rimase in attesa. Wednesday prese altri venti dollari e glieli diede.

«Bene. Vi nutriremo come principi. Adesso andate su. Utrennjaja Zarja è sveglia, l’altra sorella invece dorme ancora, perciò non fate troppo baccano.»

Shadow e Wednesday salirono le scale buie. Il pianerottolo del secondo piano era ingombro di sacchi dell’immondizia e puzzava di verdura marcia.

«Sono zingari?» domandò Shadow.

«Zarja e la sua famiglia? Neanche per sogno. Non sono rom. Sono russi. Slavi, direi.»

«Ma legge il futuro.»

«Un sacco di gente lo fa. Mi ci diletto perfino io.» All’ultima rampa di scale Wednesday ansimava. «Sono fuori esercizio.»

Sul pianerottolo dell’ultimo piano si affacciava un’unica porta dipinta di rosso e dotata di occhio magico.

Wednesday bussò. Nessuno rispose. Bussò di nuovo, più forte.

«Va bene! Va bene! Ho sentito! Ho sentito!» Rumore di chiavi girate nella toppa, di catenacci tirati, di una catena sganciata. La porta rossa venne socchiusa.

«Chi è?» Era una voce di uomo, vecchia e arrochita dalle sigarette.

«Un vecchio amico, Chernobog. Con un socio.»

La porta si aprì soltanto fin dove lo consentiva la catena. Shadow intravide una faccia grigia che scrutava dall’ombra. «Che cosa vuoi, Votan?»

«Il piacere della tua compagnia, per cominciare. Poi ho delle informazioni da passarti. Com’è che si dice?… Ah sì… che potrebbero tornarti utili.»

La porta si spalancò. L’uomo era di bassa statura, aveva i capelli color grigio ferro e i tratti scabri. Portava un vecchio accappatoio e un paio di pantaloni grigi a righe, lucidi sulle ginocchia, e le pantofole. Aveva una sigaretta senza filtro tra le dita tozze, e la fumava tenendola a coppa nel palmo, come un carcerato, pensò Shadow, o un soldato. Tese la mano sinistra a Wednesday. «Allora che tu sia benvenuto, Votan.»