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«Non dire mai che non c’è niente» intervenne Wednesday. «Non dirlo mai.»

«Smettila. Non voglio ascoltarti.» Si rivolse a Shadow. «Giochi a dama?»

«Sì.»

«Bene. Allora fai una partita» disse prendendo una scatola di legno dalla mensola del camino e rovesciando le pedine sul tavolo. «I neri a me.»

Wednesday sfiorò un braccio di Shadow. «Non sei obbligato» disse.

«Non c’è problema. Gioco volentieri». Wednesday scrollò le spalle e da un mucchietto di riviste ingiallite sul davanzale della finestra prese un vecchio numero del "Reader’s Digest".

Chernobog finì di sistemare le pedine con le sue dita scure e il giocò cominciò.

Nei giorni seguenti a Shadow capitò spesso di ricordare quella partita. Certe notti la sognò. I suoi pezzi, rotondi e piatti, bianchi, in teoria, avevano il colore del legno vecchio e sporco. Quelli di Chernobog erano di un nero opaco e sbiadito. Mosse per primo. Nei suoi sogni non conversavano, giocando, si sentiva solo il sonoro clic delle pedine che venivano appoggiate, o il fruscio di legno contro legno quando venivano spostate di una casella.

Per le prime cinque o sei mosse i due giocatori avanzarono verso il centro della damiera, lasciando intatte le linee di base. C’erano lunghe pause tra una mossa e l’altra, come durante una partita a scacchi, mentre i due giocatori osservavano e riflettevano.

Shadow aveva giocato a dama in prigione: serviva a far passare il tempo. Aveva giocato anche a scacchi, ma gli mancava la capacità di impostare una tattica. Preferiva improvvisare cercando di fare la mossa giusta al momento giusto. A volte in questo modo si riesce a vincere, a dama.

Si sentì un clic quando Chernobog afferrò una pedina nera e si mangiò una bianca. Poi l’appoggiò sul tavolino, accanto alla damiera.

«La prima vittima. Hai già perso» disse. «La partita è finita.»

«No» rispose Shadow. «La fine è ancora lontana.»

«Non vorresti fare una puntatina, in questo caso? Scommettere qualcosa per renderla più interessante?»

«No» si intromise Wednesday senza alzare gli occhi dalla pagina delle barzellette da caserma, «non vuole.»

«Non sto giocando con te, vecchio. Gioco con lui. Allora, vuoi scommettere, signor Shadow?»

«Di che cosa stavate discutendo voi due, prima?»

Chernobog aggrottò la fronte rugosa. «Il tuo padrone vuole che vada con lui. Per aiutarlo nella sua follia. Piuttosto morto.»

«Vuole scommettere? D’accordo. Se vinco io viene con noi.»

Il vecchio arricciò le labbra. «Possibile» disse, «ma solo se accetti di pagare pegno, in caso di sconfitta.»

«E quale sarebbe, il pegno?»

Chernobog rimase imperturbabile. «Se vinco io ti fracasso la testa. Con la mazza. Prima ti metti in ginocchio. Poi ti abbatto con un colpo in mezzo alla fronte e tu non ti rialzi più.» Shadow lo guardò cercando di decifrarne il volto. Non stava scherzando, di questo era certo: nella sua espressione c’era qualcosa di famelico, brama di dolore, o morte, o punizione.

Wednesday chiuse la rivista. «È ridicolo. Ho fatto male a venire qui. Shadow, ce ne andiamo.» Il gatto grigio, importunato, si alzò dal divano e andò sul tavolino, accanto alla scacchiera. Fissò i pezzi, poi saltò sul pavimento e uscì dalla stanza con la coda ritta.

«No» disse Shadow. Non aveva paura di morire. Dopotutto non è che avesse una buona ragione per vivere. «Mi sta bene. Accetto. Se vince lei ha la possibilità di fracassarmi il cranio con un colpo di mazza» e mosse una pedina sulla casella accanto al bordo della damiera.

Non c’era altro da aggiungere, tuttavia Wednesday non riprese a leggere il "Reader’s Digest". Rimase a osservare la partita con l’occhio di vetro e l’occhio buono, e un’espressione che non lasciava trapelare niente.

Chernobog si mangiò un altro bianco. Shadow due neri. Dal corridoio arrivavano gli odori di una cucina sconosciuta. Benché non fossero tutti stuzzicanti Shadow si rese improvvisamente conto di essere molto affamato.

I due uomini muovevano i loro pezzi, a turno. Un sacco di pedine mangiate, una fioritura di dame: non più costrette a muoversi solo in avanti, una casella alla volta, le dame potevano andare in ogni direzione, il che le rendeva doppiamente pericolose. Erano arrivati alla linea di base della damiera e adesso potevano andare ovunque. Chernobog ne aveva tre, Shadow due.

Chernobog mosse una dama mangiandosi tutte le pedine dell’avversario mentre con le altre due gli teneva bloccate le sue.

E poi ne conquistò una quarta e senza sorridere si mangiò le due dame di Shadow. La partita era finita.

«Allora» disse, «ti posso fracassare il cranio. E tu ti metterai in ginocchio senza fare storie. Bene.» Allungò una mano e batté una pacca sul braccio di Shadow.

«C’è ancora tempo, prima di cena» disse Shadow. «Vuole farne un’altra? Alle stesse condizioni?»

Chernobog si accese una sigaretta con un fiammifero da cucina. «Come, alle stesse condizioni? Vuoi che ti uccida due volte?»

«Al momento lei dispone di un colpo solo. Mi ha detto lei stesso che non si tratta soltanto di forza, che ci vuole soprattutto abilità. Così se vince anche questa volta ha a disposizione due colpi.»

Chernobog lo guardò torvo. «Ne basta uno, uno solo. In questo consiste l’arte.» Si batté sull’avambraccio destro, dov’erano i muscoli, con la mano sinistra, spargendo cenere dappertutto.

«È passato tanto tempo. Se avesse perso l’abilità mi potrebbe ferire e basta. Quand’è stata l’ultima volta che ha tirato un colpo di mazza al mattatoio? Trent’anni fa? Quaranta?»

Chernobog non disse niente. La bocca chiusa era un taglio grigio nella faccia. Tamburellò le dita sul tavolino di legno, a ritmo. Poi rimise i ventiquattro pezzi al loro posto sulla damiera.

«Gioca» disse. «Tu hai ancora i chiari. Io gli scuri.»

Shadow fece la prima mossa. Chernobog rispose e Shadow capì che l’altro avrebbe ripetuto lo stesso schema di gioco della partita appena vinta, e che quello era il suo limite.

Allora giocò in maniera avventata. Approfittando di ogni opportunità che gli si presentava, oppure muovendo senza riflettere, senza fermarsi a pensare. E questa volta giocando sorrideva; e ogni volta che toccava a Chernobog il suo sorriso diventava più largo.

Di lì a poco Chernobog cominciò a muovere le pedine bruscamente, picchiandole sul tavolo con tanta forza da far tremare quelle rimaste sulle caselle nere.

«Ecco» disse prendendo una pedina di Shadow con fracasso e mettendo giù la nera con un tonfo. «Ecco. Cosa te ne pare?»

Shadow non rispose: si limitò a sorridere e soffiò la pedina che Chernobog aveva appena mosso, poi un’altra e un’altra ancora, e una quarta, spazzando via tutte le nere dal centro della damiera. Prese una pedina bianca dal mucchietto sul tavolo e fece la sua dama.

Dopo di che rastrellò le pedine restanti in poche mosse e la partita era finita.

«Facciamo la bella?»

Chernobog lo fissò, gli occhi grigi come aculei di acciaio. Poi rise, battendogli grandi pacche sulle spalle. «Tu mi piaci!» esclamò. «Hai le palle.»

In quel momento Utrennjaja Zarja infilò la testa in salotto per dire che la cena era pronta e che dovevano sgomberare il tavolo e stendere la tovaglia.

«Non abbiamo una sala da pranzo» disse. «Mi dispiace. Mangiamo qui.»

I piatti di portata furono sistemati sul tavolino e ciascuno dei commensali venne dotato di un vassoietto di legno smaltato su cui erano appoggiate le posate annerite da tenere sulle ginocchia.

Vechernjaja Zarja prese cinque scodelle e mise dentro ciascuna una patata bollita con la buccia su cui versò un’abbondante porzione di borsch dal violento color cremisi. Aggiunse un cucchiaio di panna acida in ogni scodella e le servì.

«Credevo che fossimo in sei» disse Shadow.

«Polunochnaja Zarja dorme ancora» disse Vechernjaja Zarja. «Le teniamo la cena in frigorifero. Mangerà quando si alza.»