Изменить стиль страницы

«Di questi tempi mi chiamano Wednesday» disse l’altro ricambiando la stretta.

Un accenno di sorriso, un bagliore di denti gialli. «Capisco. Molto divertente. E lui sarebbe?»

«È il mio socio. Shadow, ti presento il signor Chernobog.»

«Molto lieto» disse il russo e strinse la mano sinistra di Shadow. La sua era ruvida e callosa, e aveva le dita gialle come se fossero state immerse nello iodio.

«Come va, signor Chernobog?»

«Va da vecchio. Il ventre mi fa male, e la schiena, e tutte le mattine tossisco da sputare i polmoni.»

«Cosa fate sulla porta?» chiese una voce femminile. Shadow guardò la vecchia comparsa alle spalle di Chernobog. Era più minuta e fragile della sorella, ma aveva i capelli lunghi e ancora dorati. «Io sono Utrennjaja Zarja» disse. «Non restate sul pianerottolo. Dovete venire dentro, dovete sedervi. Vi porto un caffè.»

Varcata la soglia dentro un appartamento che puzzava di cavolo bollito, lettiera per gatti e sigarette straniere senza filtro, furono sospinti lungo un minuscolo corridoio su cui si aprivano varie porte fino al salotto in fondo, dove vennero fatti accomodare su un enorme divano rivestito di cavallino, disturbando, nel processo, un vecchio gatto grigio che si stirò, si alzò e, rigido sulle zampe, si spostò nel punto più lontano, riaccovacciandosi circospetto a scrutarli a uno a uno, per poi richiudere un occhio e riaddormentarsi. Chernobog prese posto sulla poltrona di fronte.

Utrennjaja Zarja trovò un posacenere vuoto e lo appoggiò vicino a Chernobog. «Come lo volete, il caffè?» chiese agli ospiti. «Noi lo prendiamo nero come la notte e dolce come il peccato.»

«Andrà benissimo, signora» rispose Shadow. Guardò fuori della finestra i palazzi dall’altra parte della strada.

Utrennjaja Zarja si avviò. Chernobog la fissò fino a quando non fu uscita. «Quella è una brava donna» disse. «Non come le sue sorelle. Una è un’arpia, e l’altra, l’altra non fa che dormire.» Appoggiò i piedi calzati nelle pantofole su un lungo tavolino basso al cui centro era intagliata una scacchiera; il legno era coperto di bruciature di sigaretta e aloni dì tazze e bicchieri.

«È sua moglie?» domandò Shadow.

«Non è la moglie di nessuno.» Il vecchio rimase un momento in silenzio, guardandosi le mani ruvide. «No. Siamo tutti parenti. Siamo venuti insieme in questo paese tanto tempo fa.»

Dalla tasca dell’accappatoio prese un pacchetto di sigarette senza filtro. Wednesday gliene accese una con un sottile accendino d’oro. «Prima siamo andati a New York» disse il vecchio. «I nostri connazionali andavano a New York. Poi qui, a Chicago. Tutto è andato storto. Anche nel mio paese d’origine mi avevano quasi dimenticato. Qui sono soltanto un brutto ricordo. Sai cos’ho fatto, quando sono arrivato a Chicago?»

«No» disse Shadow.

«Mi sono trovato un lavoro al macello. Al mattatoio. Quando i manzi salivano la rampa trovavano me, l’abbattitore. Sai perché ci chiamano abbattitori? Perché prendiamo la mazza e abbattiamo la vacca. Pum! Ci vuole forza nelle braccia. Capisci? Poi l’incatenatore incatena il manzo, lo tira su e gli taglia la gola. Prima di mozzargli la testa lo fanno dissanguare. Noi eravamo i più forti, noi abbattitori.» Alzò la manica dell’accappatoio flettendo l’avambraccio per mettere in mostra i muscoli ancora visibili sotto la pelle cascante. «La forza però non basta. Ci vuole arte. Arte nel colpire. Altrimenti la vacca rimane solo stordita, o si arrabbia. Poi negli anni Cinquanta ci hanno dato le pistole a chiodi. Gliele puntavi in mezzo alla fronte, pum, pum! Dirai che così sono capaci tutti. Ma non è vero.» Mimò il gesto di conficcare un chiodo di metallo nella testa di una mucca. «Ci vuole abilità.» Sorrise al ricordo, mettendo in mostra un dente color ferro.

«Non cominciare con le tue storie di quando uccidevi le mucche.» Utrennjaja Zarja servì il caffè in piccole tazze smaltate a colori vivaci su un vassoio di legno rosso. Diede a ciascuno una tazza e poi sedette accanto a Chemobog.

«Vechernjaja Zarja è andata a fare la spesa. Tornerà subito.»

«L’abbiamo incontrata davanti al portone» disse Shadow. «Ci ha detto che legge il futuro.»

«Sì» rispose la sorella. «Al crepuscolo, il momento più adatto per le bugie. Io non riesco a dirle bene, quindi sono una pessima indovina. E nostra sorella Polunochnaja Zarja non sa dirle del tutto.»

Il caffè era più dolce e più forte di quanto Shadow si sarebbe aspettato.

Chiese di poter usare il bagno, una stanzetta poco più grande di un armadio con appese ai muri alcune vecchie fotografie incorniciate di uomini e donne in rigide pose vittoriane. Dal salotto sentiva arrivare voci concitate. Si lavò le mani con l’acqua ghiacciata e una scaglia di sapone rosa dall’odore disgustoso.

Quando uscì dal bagno trovò Chernobog nel corridoio.

«Tu porti solo guai!» stava gridando. «Nient’altro che guai! Non voglio stare a sentire! Vattene da casa mia!»

Wednesday era ancora seduto sul divano e sorseggiava il caffè accarezzando il gatto grigio. In piedi sul tappeto consunto Utrennjaja Zarja si attorcigliava nervosamente i lunghi capelli biondi.

«C’è qualche problema?» chiese Shadow.

«Lui è il problema!» gridò Chernobog. «Lui! Digli che niente potrebbe convincermi ad aiutarlo! Voglio che se ne vada! Voglio che esca di qui! Andatevene tutti e due!

«Per favore» implorò Utrennajaja Zarja. «Per favore fate piano, altrimenti sveglierete Polunochnaja Zarja.»

«E tu sei uguale a lui, vuoi che lo sostenga nella sua follia» strillò Chernobog. Sembrava che stesse per piangere. Una lunga colonnetta di cenere cadde dalla sua sigaretta sul tappeto logoro del corridoio.

Wednesday si alzò e gli si avvicinò. Gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ascoltami» disse conciliante. «Prima di tutto non è una follia. È l’unica via. Secondo, ci saranno tutti. Non vorrai essere lasciato fuori, no?»

«Tu sai chi sono» rispose Chernobog. «Sai quello che hanno fatto queste mani. Tu vuoi mio fratello, non me. E mio fratello non c’è.»

Si aprì una porta e un’assonnata voce femminile chiese: «Cosa succede?».

«Niente, sorella mia» rispose Utrennjaja Zarja. «Torna a dormire.» Poi si rivolse a Chernobog. «Hai visto? Hai visto cos’hai fatto con tutto quel gridare? Torna in salotto e siediti. Siediti!» Chernobog sembrava intenzionato a protestare ma di colpo la rabbia gli passò. Aveva un’aria fragile, all’improvviso, fragile e solitaria.

I tre uomini rientrarono nel salotto fatiscente. Nella stanza aleggiava uno scuro anello di nicotina che si fermava a trenta centimetri dal soffitto, come la riga di sporcizia in una vecchia vasca da bagno.

«Non devi farlo necessariamente per te» disse Wednesday imperturbabile. «Se lo fai per tuo fratello ci guadagni anche tu. In questo voi tipi dualistici siete nettamente superiori a noi, non è così?»

Chernobog non parlò.

«A proposito di Bielebog, hai avuto sue notizie?»

L’altro scosse la testa. Guardò Shadow. «Hai fratelli?»

«No. Non che io sappia.»

«Io ne ho uno. Dicono che insieme siamo una persona sola, sai? Quand’eravamo giovani i suoi capelli erano biondissimi, gli occhi celesti, e la gente diceva che lui era quello bravo. E i miei capelli erano scuri, forse più scuri dei tuoi, e la gente diceva che ero la canaglia, hai capito? Il cattivo ero io. E adesso il tempo passa e ho i capelli grigi. Anche i suoi sono grigi, credo. E guardandoci non sapresti più riconoscere il chiaro dall’oscuro.»

«Eravate molto uniti?» chiese Shadow.

«Uniti?» ripeté Chernobog. «No. Come avremmo potuto? Ci interessavano cose molto diverse.»

Dal fondo del corridoio arrivò un gran frastuono e Vechernjaja Zarja fece il suo ingresso. «Tra un’ora si mangia» annunciò. Poi scomparve.

Chernobog sospirò. «Crede di essere una buona cuoca. Ma cucinavano i domestici, a casa sua. Adesso non c’è nessuno. Non c’è niente.»