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«Sì.»

«E poi Audrey è andata a trovare sua sorella e si è fermata una settimana. Questo è successo, direi, un anno o tredici mesi dopo il tuo arresto.» La sua voce era inespressiva, le parole suonavano incolori, monotone, come sassolini lasciati cadere, a uno a uno, dentro un pozzo profondo. «Robbie è venuto da me. Ci siamo ubriacati. Lo abbiamo fatto sul pavimento della camera da letto. Non è stato male. Non è stato niente male.»

«Questo potevi risparmiarmelo.»

«Ah sì? Scusa. È più difficile trovare le parole giuste, da morti. È come una fotografia, sai. Non sembra più così importante.»

«Per me lo è.»

Laura si accese un’altra sigaretta. Si muoveva in maniera fluida e precisa, per niente rigida. Per un istante Shadow si chiese se fosse davvero morta. Forse era un complicato trucco di qualche tipo a suo danno. «Sì» riprese lei. «Capisco. Be’, la nostra relazione — anche se non la chiamavamo così, non la chiamavamo in nessun modo, a essere sinceri — è durata quasi due anni.»

«Mi avresti lasciato per lui?»

«Perché mai avrei dovuto fare una cosa simile? Tu sei il mio grosso orso. Il mio cucciolo. Tu hai fatto quello che hai fatto, per me. Ho aspettato il tuo ritorno per tre anni. Ti amo.»

Shadow si trattenne dal dirle: ti amo anch’io. Non gliel’avrebbe detto. Non più. «Allora che cos’è successo, l’altra notte?»

«Quando mi hanno ammazzata?»

«Sì.»

«Be’, io e Robbie eravamo usciti per parlare della festa a sorpresa per il tuo benvenuto. Sarebbe stato meraviglioso. E gli ho detto che tra noi era finita. Avevamo chiuso. Adesso che eri fuori doveva per forza essere così.»

«Mmm. Grazie, piccola.»

«Non c’è di che, caro.» Un sorriso spettrale la illuminò. «Abbiamo preso una piega sdolcinata. Era carino. Abbiamo fatto gli stupidi. Io ero ubriaca persa. Lui no. Doveva guidare. Stavamo tornando a casa quando gli ho comunicato che volevo fargli un pompino d’addio, per l’ultima volta, con passione, e così gli ho abbassato la cerniera dei pantaloni e ho cominciato a darmi da fare.»

«Un grave errore.»

«Non dirlo a me. Con la spalla ho toccato il cambio e Robbie ha cercato di liberarsi di me per rimettere dentro la marcia ma stavamo già sbandando e si è sentito un forte botto e ricordo di aver pensato, mentre il mondo mi vorticava intorno, "sto per morire". Spassionatamente. Me lo ricordo bene. Non ero spaventata. Poi non ricordo più niente.»

C’era odore di plastica bruciata, nella stanza. La sigaretta, pensò Shadow, che era bruciata fino al filtro. Laura non sembrava essersene accorta.

«Cosa ci fai qui?»

«Una moglie non può venire a trovare suo marito?»

«Tu sei morta. Sono venuto al tuo funerale questo pomeriggio.»

«Sì.» Laura fissò nel vuoto senza parlare. Shadow si alzò e le si avvicinò. Le prese la sigaretta consumata tra le dita e la gettò dalla finestra.

«Dunque?»

Laura lo guardò negli occhi. «Non so molto più di quello che sapevo da viva. La maggior parte delle cose che so e che non sapevo da viva non riesco a tradurle in parole.»

«Generalmente i morti stanno nelle tombe» disse Shadow.

«Lo credi? Lo credi davvero, cucciolo?» Si alzò dal letto per avvicinarsi alla finestra. Alla luce dell’insegna del motel il suo viso era bello come sempre. Era il viso della donna per cui era finito dentro.

Il cuore gli faceva male, come se qualcuno glielo stesse stringendo nel pugno. «Laura…?»

Lei non lo guardò. «Ti sei fatto coinvolgere in una brutta storia, Shadow. Ti metterai nei guai, se nessuno ti protegge. Ti proteggerò io. E grazie del regalo.»

«Quale regalo?»

Lei infilò una mano nella tasca della camicetta e prese la moneta d’oro che poche ore prima lui aveva gettato nella tomba. Era ancora sporca di terra. «Forse la metterò in una catenina. Sei stato gentile.»

«Figurati.»

A quel punto lei si voltò e lo guardò con occhi che sembravano vederlo e al tempo stesso non vederlo. «Credo che ci siano parecchi aspetti del nostro matrimonio su cui dobbiamo lavorare.»

«Piccola» le disse, «sei morta.»

«Questo è uno degli aspetti, ovviamente.» Si interruppe, poi disse: «D’accordo. Adesso vado. Sarà meglio». E con naturalezza e disinvoltura si girò e gli appoggiò le mani sulle spalle, poi si alzò in punta di piedi e lo salutò con un bacio, come faceva sempre.

Lui si chinò goffamente per baciarla sulla guancia, ma lei spostò la testa in modo da incontrare le sue labbra. Il suo alito puzzava leggermente di naftalina.

Gli fece saettare la lingua in bocca. Era fredda, e asciutta, e sapeva di sigaretta e di bile. Se Shadow aveva avuto qualche dubbio sul fatto che sua moglie fosse davvero morta, adesso non ne aveva più.

Si tirò indietro.

«Ti amo» disse lei con semplicità. «Ti terrò d’occhio.» Si avviò verso la porta. A Shadow era rimasto in bocca uno strano sapore. «Cerca di dormire un po’, cucciolo. E tieniti alla larga dai guai.»

Aprì la porta. All’inclemente neon del corridoio Laura sembrava molto morta, però è vero che il neon fa quell’effetto su tutti.

«Avresti potuto chiedermi di passare la notte con te» disse lei nel suo tono distaccato.

«Non credo che ci riuscirei» rispose Shadow.

«Ci riuscirai, dolcezza, prima che tutto sia finito. Lo farai.» Poi si voltò e imboccò il corridoio.

Shadow si affacciò a guardare. Il portiere di notte continuò a leggere il romanzo di John Grisham senza quasi alzare gli occhi, quando lei gli passò davanti. Attaccato alle scarpe di Laura c’era il fango del cimitero. Poi sparì.

Shadow fece un lungo sospiro. Il cuore gli batteva forte e irregolare. Superò l’atrio e bussò alla porta di Wednesday. Mentre bussava provò la strana sensazione di essere colpito da un paio di ali nere, come se un enorme corvo l’avesse attraversato in volo per percorrere il corridoio ed entrare nel mondo che si trovava dall’altra parte.

Wednesday aprì la porta. Era nudo, salvo che per un asciugamano dell’albergo avvolto intorno ai fianchi. «Che cosa diavolo vuoi?» chiese.

«Ti devo dire una cosa» rispose Shadow. «Forse era un sogno — ma non lo era — o forse ho inalato un po’ di quel fumo di pelle di rospo sintetica del ciccione, o probabilmente sto diventando matto…»

«Va bene, va bene. Sputa» disse Wednesday. «Sono in mezzo a una faccenda.»

Shadow gettò un’occhiata dentro la stanza. Nel letto c’era qualcuno che lo osservava. Il lenzuolo tirato per coprire i piccoli seni. I capelli biondo chiaro, qualcosa di topesco nei tratti. Abbassò la voce. «Ho appena visto mia moglie» disse. «Era in camera mia.»

«Intendi un fantasma? Hai visto un fantasma?»

«No. Non un fantasma. Era lei, in carne e ossa. È morta stecchita ma non era un fantasma. L’ho toccata. Mi ha baciato.»

«Capisco.» Wednesday gettò un’occhiata alla donna nel letto. «Torno subito, cara.»

Attraversarono l’atrio fino alla camera di Shadow. Wednesday accese le luci. Guardò il mozzicone rimasto nel portacenere. Si grattò il petto. Aveva i capezzoli scuri, capezzoli da vecchio, e i peli sul petto erano brizzolati. Su un fianco c’era una lunga cicatrice chiara. Annusò l’aria. Poi scrollò le spalle.

«D’accordo» disse. «Allora la tua defunta moglie si è presentata qui. Hai paura?»

«Un po’.»

«Molto saggio. I defunti mi fanno sempre una fifa blu. C’è dell’altro?»

«Sono pronto a partire. Dell’appartamento e del resto si può occupare la madre di Laura. Comunque mi detesta. Quando vuoi partire io sono pronto.»

Wednesday sorrise. «Ottima notizia, ragazzo mio. Lasciamo Eagle Point domattina. Adesso cerca di dormire. Ho dello scotch in camera, se ti può far comodo. Ne vuoi?»

«No. Me la cavo.»

«Allora non disturbarmi più. Mi aspetta una lunga notte.»

«Divertiti» disse Shadow.

«Lo spero» rispose Wednesday, e uscendo si chiuse la porta alle spalle.

Shadow sedette sul bordo del letto. L’odore di fumo e conservanti indugiava ancora nell’aria. Avrebbe desiderato piangere sua moglie, gli sembrava più appropriato che esserne turbato o, adesso che se n’era andata poteva ammetterlo, addirittura spaventato. Era arrivato il momento di piangerla. Spense le luci, si sdraiò e pensò a com’era lei, prima che lui andasse in prigione. Ricordò il loro matrimonio quand’erano giovani e felici, sciocchi e incapaci di non mettersi le mani addosso.