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Non farlo, si disse. Decise di pensare ad altro. Provò con i giochi con le monete. Sapeva di non avere la personalità dell’illusionista; non riusciva nemmeno a inventare le storielle necessarie, e non desiderava fare giochi di prestigio con le carte né far comparire fiori. Voleva soltanto manipolare le monete, apprezzava l’abilità necessaria per farlo. Cominciò a elencare mentalmente tutte le tecniche di palmaggio che conosceva, e il pensiero tornò al quarto di dollaro che aveva gettato nella tomba di Laura e poi a Audrey che gli diceva che Laura era morta con l’uccello di Robbie in bocca, e provò un’altra volta una piccola fitta al cuore.

Ogni ora fa male. L’ultima uccide. Dove l’aveva sentito?

Pensò al commento di Wednesday e involontariamente sorrise: aveva sentito troppa gente esortarsi a vicenda a non reprimere i propri sentimenti, a lasciar fluire le emozioni, a sfogare il dolore. Secondo lui anche la rimozione aveva i suoi pregi. Se la si praticava per abbastanza tempo e abbastanza profondamente, sospettava, si finiva presto per non sentire più niente.

A quel punto il sonno lo colse senza che se ne accorgesse.

Stava camminando…

Stava camminando in una stanza più grande di una città, e ovunque guardasse vedeva statue e figure rozzamente intagliate. Era in piedi accanto a una statua dalle sembianze femminili: i seni nudi scendevano penduli, intorno alla vita aveva una catena di mani tagliate, impugnava due coltelli affilati e al posto della testa le spuntavano due serpenti identici che si fronteggiavano, i corpi inarcati, pronti ad attaccarsi. C’era qualcosa di violentemente, profondamente sbagliato in quella statua, qualcosa che lo fece arretrare.

Cominciò ad attraversare l’ingresso. Gli occhi intagliati delle statue dotate di occhi sembravano seguire ogni sua mossa.

Nel sogno si rendeva conto che davanti a ogni statua era scritto, sul pavimento, il nome in lettere ardenti. L’uomo con i capelli bianchi e una collana di denti al collo, che teneva un tamburo, era Leucotios, la donna dai fianchi possenti che perdeva mostri dalla grande fenditura tra le gambe era Hubur, l’uomo con la testa d’ariete che reggeva la palla d’oro Hershef.

Nel sogno una vocetta puntigliosa gli parlò, ma Shadow non riuscì a vedere nessuno. «Ci sono dèi che sono stati dimenticati, e ormai potrebbero anche essere morti. Li si può trovare soltanto dentro antiche storie. Sono scomparsi, tutti scomparsi, ma ci rimangono i loro nomi e le loro effigi.»

Shadow svoltò un angolo e capì di essere in un’altra stanza, ancora più grande della prima. Era sconfinata. Vicino a lui c’era il cranio di un mammut, scuro e lucido, e un mantello peloso color ocra, indossato da una donna minuscola che aveva la mano sinistra deforme. Accanto a lei c’erano altre tre donne scolpite nello stesso blocco di granito e unite alla vita: le loro facce sembravano appena abbozzate, incomplete, mentre invece seni e genitali erano stati realizzati con cura particolareggiata, e c’era un uccello incapace di volare che Shadow non riconosceva, alto due volte lui, con un becco come quello di un avvoltoio ma braccia umane, e così via all’infinito.

La voce parlò ancora, come se si rivolgesse a una scolaresca, e disse: «Vi sono dèi usciti dalla memoria. Perfino i loro nomi si sono persi. I popoli che li adoravano sono stati dimenticati. I loro idoli sono stati distrutti e umiliati da tempo immemorabile. I loro ultimi sacerdoti sono morti senza tramandare i segreti.

«Gli dèi muoiono. E quando muoiono davvero nessuno li piange o li ricorda. È più difficile uccidere le idee, ma prima o poi si uccidono anche quelle».

Un mormorio cominciò a diffondersi nella sala, un sussurro che nel sogno provocò a Shadow una paura inspiegabile, che gli raggelò il sangue nelle vene. Sprofondò nel panico totale, lì in quella sala degli dèi la cui esistenza era stata dimenticata, dèi con facce da polpo e dèi che erano nient’altro che mani mummificate o pietre che cadevano o foreste incendiate…

Shadow si svegliò con il cuore che picchiava come un martello pneumatico, la fronte madida di sudore, all’erta. I numeri rossi sull’orologio del comodino segnavano l’una e tre minuti. L’insegna del Motel America brillava attraverso la finestra. Disorientato, Shadow si alzò ed entrò nel minuscolo bagno. Pisciò senza accendere la luce e tornò in camera. Il sogno era ancora vivido nel ricordo, anche se non avrebbe saputo dire che cosa l’avesse tanto spaventato.

Nella stanza entrava una luce fioca, ma i suoi occhi erano abituati all’oscurità. Seduta sul bordo del letto c’era una donna.

Shadow la conosceva. L’avrebbe riconosciuta tra mille, tra un milione. Indossava ancora il tailleur blu scuro con cui l’avevano seppellita.

Parlò in un sussurro, ma era un sussurro familiare. «Immagino che vorrai sapere che cosa ci faccio qui» disse Laura.

Shadow non fiatò.

Una volta che si fu seduto sull’unica sedia domandò: «Sei tu?».

«Sì» rispose lei. «Ho freddo, cucciolo.»

«Sei morta, piccola.»

«Sì. Sì. Morta.» Batté sul letto accanto a sé. «Vieni qui vicino.»

«No» rispose Shadow. «Resto dove sono, per il momento. Dobbiamo ancora affrontare alcuni problemi in sospeso.»

«Tipo che io sono morta.»

«Per esempio, ma adesso stavo pensando soprattutto al modo in cui sei morta. A te e Robbie.»

«Oh» disse lei. «Quello.»

A Shadow sembrava di sentire — o forse, pensò, immaginava di sentire — un odore di putrefazione, di fiori e sostanze conservanti. Sua moglie — la sua ex moglie… no, si corresse, la sua defunta moglie — lo guardava imperturbabile, seduta sul bordo del letto.

«Cucciolo» disse. «Potresti… credi di potermi procurare una sigaretta?»

«Credevo che avessi smesso.»

«Infatti. Ma ormai non mi preoccupo più dei rischi per la salute. Penso che mi calmerebbe. Nell’atrio c’è un distributore.»

Shadow si infilò jeans e maglietta e a piedi nudi andò nell’atrio dell’albergo. Il portiere del turno di notte era un uomo di mezza età intento a leggere un libro di John Grisham. Shadow comperò un pacchetto di Virginia Slim e chiese una scatola di fiammiferi al portiere.

«Lei dorme in una stanza per non fumatori» gli disse l’uomo. «Si ricordi di aprire la finestra.» Gli diede i fiammiferi e un portacenere di plastica con il logo del Motel America.

«Va bene» rispose Shadow.

Tornò in camera. Laura si era sdraiata sopra le coperte gualcite. Shadow aprì la finestra, poi le diede sigarette e fiammiferi. Aveva le dita fredde. Quando si accese una sigaretta lui vide che le sue unghie, solitamente immacolate, erano rotte e rosicchiate, sporche di fango. Laura inspirò, soffiò sul fiammifero per spegnerlo, inspirò di nuovo. «Non riesco a sentire il gusto. Credo che non funzioni.»

«Mi dispiace» disse lui.

«Anche a me.»

Quando Laura inspirava, la sigaretta diventava incandescente, e lui riusciva a vederla in faccia.

«E così ti hanno fatto uscire.»

«Sì.»

La punta della sigaretta si arroventò, arancione. «Ti sono ancora grata. Non avrei mai dovuto coinvolgerti.»

«Be’» disse lui, «io avevo acconsentito. Avrei potuto rifiutarmi.» Si domandò perché non avesse paura di lei, perché il sogno di un museo lo lasciasse in preda al terrore mentre con un cadavere ambulante se la cavava benissimo.

«Sì» disse lei. «Avresti potuto dire di no, imbranatone mio.» Era avvolta nelle volute di fumo. Era molto bella, in quella luce fioca. «Vuoi sapere di me e Robbie?»

«Perché no?»

Lei spense la sigaretta nel posacenere. «Tu eri dentro. E io avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Di una spalla su cui piangere. Tu non c’eri. Io ero infelice.»

«Mi dispiace.» Shadow si rese conto che nella voce di Laura c’era qualcosa di diverso, e cercò di capire che cosa fosse.

«Lo so. Così ci incontravamo ogni tanto per bere un caffè. Per parlare di quello che avremmo fatto al tuo ritorno. Di quanto sarebbe stato bello rivederti. Gli piacevi davvero. Non vedeva l’ora di ridarti il tuo vecchio impiego.»