Изменить стиль страницы

L’altro scosse la testa. «Okay. Me lo dica. Che cosa farà?»

«Potrei dirtelo» rispose il signor World gravemente, «però poi sarei costretto a ucciderti.» Strizzò l’occhio e la tensione nella stanza si allentò.

Il ragazzo grasso cominciò a ridacchiare, una risata interminabile, nasale. «Okay. Eh eh. Okay. Eh eh. Ho capito. Messaggio ricevuto sul pianeta tecnologico. Forte e chiaro. Nada, niente da fare.»

Il signor World scosse la testa e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ehi» disse, «vuoi saperlo davvero?»

«Sicuro.»

«Bene» disse il signor World, «visto che siamo amici, ecco cosa farò: prenderò il bastone e nel momento esatto in cui si scontreranno lo lancerò sopra gli eserciti. Quando io lo lancerò il bastone si trasformerà in una lancia. E mentre la lancia disegnerà un arco nel cielo proprio sopra la battaglia, io griderò "dedico questa battaglia a Odino".»

«Cosa? Perché?»

«Per il potere» rispose il signor World. Si grattò il mento. «E per il nutrimento. Una combinazione delle due cose. Vedi, l’esito della battaglia non conta. Ciò che importa è il caos, e il massacro.»

«Non capisco.»

«Te lo dimostro. Sarà così» disse. «Attenzione!»

Prese dalla tasca del Burberry un coltello da caccia con l’impugnatura di legno e con un movimento sciolto infilò la lama nella carne molle sotto il mento del ragazzo grasso spingendo verso l’alto, verso il cervello. «Dedico questa morte a Odino» disse, mentre la lama affondava.

Sulla mano gli cadde qualche cosa che non era veramente sangue e dietro gli occhi del ragazzo grasso si sentì un crepitio di scintille. L’odore che si diffuse nell’aria era quello di fili elettrici bruciati.

Il ragazzo grasso contrasse la mano e poi cadde. Aveva sul volto un’espressione stupita e infelice. «Guardalo» disse in tono colloquiale il signor World rivolgendosi all’aria. «Sembra che abbia appena visto una sequenza di zero e di uno trasformarsi in uno stormo di uccelli colorati che prende il volo.»

Non arrivò nessuna replica dal vuoto corridoio di roccia.

Il signor World si caricò il corpo sulla spalla come se non pesasse niente, aprì il diorama dei pixy, lo lasciò cadere accanto all’alambicco e lo coprì con il suo lungo impermeabile nero. Se ne sarebbe liberato quella sera, decise, e fece il suo sorriso sfregiato: nascondere un cadavere su un campo di battaglia era fin troppo facile. Nessuno gli avrebbe badato. Nessuno se ne sarebbe interessato.

Seguì qualche minuto di silenzio, poi nell’ombra una voce burbera che non era quella del signor World si schiarì la gola e disse: «Bell’inizio».

18

Cercarono di fermare i soldati, ma i soldati fecero fuoco uccidendoli entrambi. Perciò la canzone sbaglia, quando parla della prigione, è una licenza poetica. La realtà non corrisponde sempre alla poesia. La poesia non corrisponde sempre alla verità. Spesso è questione di metrica.

Commento di un cantante a The ballad of Sam Bass, in A Treasury of American Folklore

Niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui potrebbe accadere davvero. Prendetela come una metafora, se la cosa vi fa sentire meglio. Le religioni sono per definizione delle metafore, dopotutto: Dio è un sogno, una speranza, una donna, un ironista, un padre, una città, una casa più grande, un orologiaio che ha perso il suo prezioso cronometro nel deserto, qualcuno che vi ama, o addirittura, contro ogni evidenza, un essere celeste il cui unico obiettivo è fare in modo che la vostra squadra di calcio o il vostro esercito vincano, oppure che i vostri problemi professionali o matrimoniali si risolvano e che voi possiate prosperare trionfando su ogni difficoltà.

Le religioni sono punti di osservazione che condizionano le vostre azioni, posizioni di vantaggio da cui osservare il mondo.

Quindi non sta accadendo niente di tutto quello che è stato raccontato fin qui. Cose simili non possono succedere. Non c’è una sola parola di verità. In ogni caso, quel che accadde dopo, accadde nel seguente modo:

Ai piedi della Lookout Mountain, sotto alberi che fornivano una scarsa protezione contro la pioggia, uomini e donne si erano riuniti intorno a un piccolo fuoco all’aperto e stavano litigando.

La dea Kalì con la sua pelle nera come l’inchiostro e i denti bianchi e aguzzi disse: «È arrivato il momento».

Anansi, con i guanti giallo limone e i capelli argentati, scosse la testa. «Possiamo aspettare. E siccome possiamo, dobbiamo.»

Dalla folla si alzò un mormorio di disapprovazione.

«No, ascoltate, ha ragione» disse un vecchio con i capelli color grigio ferro: Chernobog. Teneva una mazza appoggiata alla spalla. «Hanno il vantaggio di dominarci dall’alto, e anche il tempo ci è contro. Cominciare adesso è una pazzia.»

Una creatura che assomigliava in parte a un lupo e soprattutto a un essere umano grugnì e sputò per terra. «Quale momento più giusto per attaccare, dedushka? Dobbiamo aspettare che il tempo migliori, quando è evidente che attaccheremo? Io dico: andiamo adesso. Dico: affrettiamoci.»

«Tra noi e loro ci sono le nuvole» osservò Isten degli ungheresi. Aveva un bel paio di baffi neri, portava un cappello nero dalla tesa larga tutto impolverato, e ostentava il sorriso di un uomo che si guadagna da vivere vendendo rivestimenti di alluminio per tetti e grondaie ai pensionati, e che lascia sempre la città subito dopo aver incassato gli assegni senza aver finito il lavoro.

Un uomo molto elegante che fino a quel momento non aveva detto niente congiunse le mani, avanzò verso il fuoco ed espresse la sua opinione in modo succinto e chiaro, suscitando cenni di assenso e borbottii di intesa.

Dal gruppo delle donne guerriere, le Morrigan, si alzò una voce. Erano così vicine, nell’ombra, da sembrare un’unica composizione di arti tatuati di blu e ali di corvo. La voce disse: «Non importa se il momento è giusto o sbagliato. È il momento. Ci ammazzano. Meglio morire tutti insieme attaccando come dèi che fuggendo alla rinfusa come topi».

Seguì un altro mormorio, questa volta erano d’accordo proprio tutti. La donna guerriera aveva espresso l’opinione generale: il momento era arrivato.

«La prima testa è mia» disse un cinese molto alto con una collana di minuscoli crani al collo. Cominciò ad arrampicarsi con lentezza e determinazione portando sulla spalla un bastone che terminava con una lama ricurva come una luna d’argento.

Anche il Nulla non dura per sempre.

Forse, lì nel Nessundove, era stato per dieci minuti, o forse per diecimila anni. Non faceva differenza: il tempo era un concetto del quale non aveva più bisogno.

Non ricordava il suo vero nome. In quel luogo che non era un luogo si sentiva svuotato e ripulito.

Senza forma, vuoto.

Non era niente.

E in quel niente una voce lo chiamò: «Hohoka, cugino. Dobbiamo parlare».

Qualcosa che un tempo era stato un uomo di nome Shadow disse: «Sei Whiskey Jack?».

«Già» rispose l’altro dall’oscurità. «È difficile rintracciarti, da morto. Non sei andato in nessuno dei posti che avevo pensato. Ti ho cercato dappertutto prima che mi venisse l’idea di guardare qui. Dimmi, l’hai poi trovata la tua tribù?»

Shadow ripensò all’uomo e alla ragazza che ballavano sotto la sfera di cristallo. «Credo di aver trovato la mia famiglia. La tribù no, non mi pare.»

«Scusa se ti disturbo.»

«Lasciami in pace. Ho avuto quello che volevo. Sono spacciato.»

«Ti stanno venendo a cercare» disse Whiskey Jack. «Vogliono farti risuscitare.»

«Ma sono spacciato» insisté Shadow. «È tutto finito, per sempre.»

«Non bisogna mai dire niente del genere» disse Whiskey Jack. «Mai. Andiamo da me. Ti andrebbe una birra?»

A quel punto in effetti gli sarebbe piaciuta. «Certo.»

«Prendine una anche per me. C’è una ghiacciaia, fuori dalla porta.» Erano nella baracca di Whiskey Jack.