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«Be’» gli confidò lei, «detestavo l’idea di marcire, e lì dov’ero stavo proprio ammuffendo. Così sono partita senza macchina, senza carte di credito. Posso contare soltanto sulla gentilezza degli sconosciuti.»

«Non hai paura? Potresti finire nei guai, essere aggredita o morire di fame.»

Lei scosse la testa, poi disse con un sorriso esitante: «Però ho incontrato te, vero?». E lui non riuscì a trovare niente da obiettare.

Finito di mangiare corsero sotto il temporale fino all’automobile riparandosi la testa con dei giornali giapponesi e correndo ridevano, come bambini nella pioggia.

«Fin dove ti posso portare?» chiese lui quando furono di nuovo in macchina.

«Fin dove arrivi tu, Mack» rispose lei timidamente.

Town era proprio felice di non aver sfoderato la battuta su Big Mack. Quella donna non era una storia da bar di una notte, lo sapeva, nel profondo del cuore. Magari ci aveva messo cinquant’anni a trovarla, ma finalmente l’aveva trovata: era lei, quella donna magica e selvaggia con i lunghi capelli scuri.

Per Town era sbocciato l’amore.

«Senti…» le disse quando arrivarono a Chattanooga. I tergicristallo dipingevano con la pioggia una macchia grigia al posto della città. «E se ti prendessi una camera in un motel, per questa notte? La pago io. Quando ho finito la consegna… possiamo fare un bel bagno caldo insieme, per cominciare. Riscaldarti un po’.»

«Mi sembra un’idea meravigliosa» rispose Laura. «Che cosa devi consegnare?»

«Quel bastone» disse lui, e ridacchiò. «Sul sedile posteriore.»

«D’accordo» ribatté lei in tono ironico. «Non dirmi niente, se non vuoi, signor Mistero.»

Town era del parere che sarebbe stato meglio se lei avesse aspettato in macchina nel parcheggio di Rock City, mentre lui andava a consegnare il bastone. Imboccò la salita sotto la pioggia battente a cinquanta all’ora, con gli abbaglianti accesi. In fondo al parcheggio si fermò e spense il motore.

«Ehi, Mack, non mi abbracci nemmeno, prima di andare?» chiese lei con un sorriso.

«Ma sicuro» rispose il signor Town. L’abbracciò, e lei gli si rannicchiò contro il petto mentre la pioggia disegnava un complesso tatuaggio sul tetto della Ford Explorer. Lui inspirò l’odore dei capelli di Laura, qualcosa di vagamente sgradevole, sotto il profumo. Viaggiando ci si sporca sempre. Quel bagno, decise, era necessario a tutti e due. Si domandò se a Chattanooga non ci fosse un posto dove comprare le perle da bagno alla lavanda per cui andava pazza la sua prima moglie. Laura alzò la testa e gli accarezzò il collo.

«Mack… continuo a pensare a una cosa… non sei curioso di sapere cos’è successo ai tuoi amici? A Woody e Stone?»

«Sì» rispose lui avvicinando le labbra a quelle di lei per il loro primo bacio. «Certo che sono curioso.»

Così Laura glielo mostrò.

Shadow camminò intorno all’albero, piano piano, disegnando cerchi sempre più grandi. Ogni tanto si fermava a raccogliere qualcosa nel prato: un fiore o una foglia, un sassolino, un rametto o un filo d’erba. Lo esaminava con attenzione, concentrandosi completamente sulla natura legnosa del legno, su quella fogliacea della foglia.

Easter pensò che aveva lo sguardo dei neonati quando cominciano a mettere a fuoco.

Non osava rivolgergli la parola. Le sarebbe sembrato sacrilego. Continuò a osservarlo, benché esausta, e a interrogarsi.

A poco più di sei metri dall’albero, seminascosto dalle erbacce e dai rampicanti morti, Shadow trovò un sacco di juta. Lo prese, ne disfece i nodi, allentò il cordino che lo chiudeva.

Gli indumenti erano i suoi. Vecchi, ma ancora utilizzabili. Rigirò le scarpe tra le mani. Accarezzò la camicia di cotone, il maglione di lana, fissandoli da una distanza di milioni di anni.

Li indossò a uno a uno.

Infilò le mani in tasca e fu con aria perplessa che estrasse qualcosa che secondo Easter era una biglia bianca e grigia.

Disse: «Niente monete». Erano le prime parole che pronunciava dopo ore.

«Monete?» gli fece eco Easter.

Lui scosse la testa. «Mi tenevano le mani occupate.» Si chinò per mettersi le scarpe.

Una volta vestito aveva un’aria più normale. Grave, però. Easter si chiese quanto fosse andato lontano, e quanto gli fosse costato il ritorno. Non era il primo che riportava indietro, e sapeva che nel giro di poco tempo quello sguardo vecchio di milioni d’anni, carico dei ricordi e dei sogni riportati dall’albero, sarebbe stato cancellato dal contatto con il mondo materiale. Succedeva sempre così.

Lo condusse in fondo al prato dove la creatura che l’aveva portata fin là aspettava tra gli alberi.

«Non può trasportare tutti e due» gli disse. «Io torno a casa da sola.»

Shadow annuì. Sembrava che si stesse sforzando di ricordare qualcosa. Poi aprì la bocca e lanciò un grido di benvenuto e di gioia.

L’uccello del tuono aprì il suo becco crudele e ricambiò il benvenuto.

Sembrava un condor, a un’occhiata superficiale. Le piume nere avevano una sfumatura violacea, il collo era bianco. Il becco era nero, tremendo: un becco da rapace, fatto per lacerare. A riposo, fermo a terra con le ali ripiegate, era grande come un orso bruno, con la testa arrivava all’altezza della testa di Shadow.

In tono fiero Horus disse: «L’ho portato io. Vivono sulle montagne».

Shadow annuì. «Una volta ho sognato gli uccelli del tuono. Il sogno più pazzesco della mia vita.»

L’uccello aprì il becco ed emise un suono sorprendentemente gentile. «Hai sentito anche tu del mio sogno?» domandò Shadow.

Allungò una mano e gli accarezzò piano la testa. L’uccello del tuono gli si strinse accanto come un pony affettuoso. E allora Shadow gli grattò il collo su su fino alla cresta.

Si girò verso Easter: «Ti ha portato fin qua?».

«Sì» disse lei. «Puoi farti riportare indietro, se te lo permette.»

«Come si fa a cavalcarlo?»

«È facile. Se non cadi. È come cavalcare il fulmine.»

«Ci rivediamo là?»

Lei scosse la testa. «Io ho finito, tesoro» disse. «Tu vai a fare quello che devi fare. Sono stanca. Buona fortuna.»

Shadow annuì. «Whiskey Jack… l’ho visto dopo che ero morto. È venuto a cercarmi e abbiamo bevuto una birra insieme.»

«Sì» disse lei. «Ne sono sicura.»

«Ti rivedrò ancora?» chiese Shadow.

Easter lo guardò con gli occhi verdi come il granturco che matura e non rispose. Poi scosse bruscamente la testa. «Ne dubito.»

Shadow fece qualche goffo tentativo di salire sul dorso dell’uccello del tuono, gli pareva d’essere un topolino sopra un falco. Sentiva in bocca un sapore di aria pura, metallico e azzurro. Qualcosa crepitò. L’uccello del tuono allargò le ali e cominciò a batterle pesantemente. Mentre la terra si allontanava Shadow si aggrappò forte con il cuore che batteva all’impazzata.

Era esattamente come cavalcare il fulmine.

Laura prese il bastone dal sedile posteriore. Lasciò il signor Town accasciato sul volante, scese dalla Ford Explorer e si diresse sotto la pioggia all’ingresso di Rock City. La biglietteria era chiusa. Era aperta la porta del negozio di souvenir. La superò, passando davanti al negozietto di caramelle e alla mostra di casine per uccelli VISITATE ROCK CITY, ed entrò nell’ottava meraviglia del mondo.

Non la fermò nessuno, anche se durante il percorso incontrò parecchi uomini e donne, sotto l’acqua. Molti di loro avevano un’aria vagamente artificiale, certi sembravano addirittura luminosi. Percorse un ponte tibetano, superò il recinto dei cervi bianchi, e si infilò nel Fat Man’s Squeeze, dove lo stretto sentiero correva tra due alte pareti rocciose. Alla fine scavalcò una catena con un cartello su cui c’era scritto che quella zona di Rock City era chiusa al pubblico; entrò in una grotta dove su una sedia di plastica, davanti a un diorama di gnomi ubriachi, vide un uomo seduto. Stava leggendo il "Washington Post" alla luce di una piccola lanterna elettrica. Vedendola, l’uomo piegò il giornale e lo appoggiò sotto la sedia. Si alzò, era un uomo alto, con i capelli color carota tagliati a spazzola e un impermeabile costoso. Le fece un piccolo inchino.