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A Laura non importava. Cos’è qualche coltellata per un cadavere?

Lo colpì con un pugno sul polso e il coltello volò sul pavimento. Lei lo allontanò con un calcio.

Adesso World piangeva e gemeva. Lo sentiva rovistare con le mani sulla sua schiena, aveva le sue lacrime calde sul collo; la schiena era inzuppata di sangue, che colava anche lungo le gambe.

«Dev’essere una scena pochissimo dignitosa» disse lei in un morto sussurro non senza un certo macabro umorismo.

Si accorse che lui incespicava, incespicò anche lei e poi scivolò nel sangue — tutto di World — che stava formando una pozzanghera sul pavimento della grotta. Caddero insieme.

L’uccello del tuono atterrò nel parcheggio di Rock City. Pioveva a dirotto e c’era una visibilità di tre metri scarsi. Shadow lasciò andare le piume dell’uccello, ricadde con un tonfo sull’asfalto bagnato e scivolò.

L’uccello scomparve in un baleno.

Shadow si rimise in piedi.

Il parcheggio era vuoto per tre quarti. Shadow si diresse all’ingresso passando davanti a una Ford Explorer marrone parcheggiata vicino a una parete rocciosa. Siccome c’era qualche cosa di molto familiare nell’automobile si fermò per dare un’occhiata e vide l’uomo rovesciato sul volante come addormentato.

Aprì la portiera.

L’ultima volta che aveva visto il signor Town era stato davanti al motel costruito nel centro dell’America. Adesso aveva un’aria sorpresa. Qualcuno gli aveva tagliato il collo con mani esperte. Lo toccò: era ancora tiepido.

Aleggiava un odore nell’abitacolo, debole come un profumo lasciato in una stanza tanti anni prima, un odore che lui avrebbe riconosciuto tra mille. Richiuse con un tonfo la portiera della Explorer e attraversò il parcheggio.

Mentre camminava sentì una fitta nel fianco, un dolore lancinante che durò soltanto un secondo, o forse meno, prima di scomparire.

Alla biglietteria non c’era nessuno. Attraversò l’edificio e sbucò nei giardini di Rock City.

Un tuono scoppiò con un boato scuotendo i rami degli alberi e riverberandosi nel cuore delle rocce più grandi, mentre la pioggia cadeva con fredda violenza. Benché fosse tardo pomeriggio sembrava già notte fonda.

La scia di una saetta squarciò le nubi e Shadow si chiese se fosse l’uccello del tuono che ritornava alla sua rupe scoscesa o soltanto una scarica atmosferica, oppure se le due idee, su un certo piano, non coincidessero, diventando la stessa cosa.

Effettivamente lo erano. Quello era il senso, dopotutto.

Una voce maschile. Shadow la sentì, e credette di distinguere le parole «… a Odino!».

Attraversò la Seven States Flag Court correndo sul lastrico reso più scivoloso dalla pioggia. Scivolò, infatti. Intorno alla montagna la nuvolaglia era densa, e nella tetra luce della tempesta di là della corte non si vedeva nemmeno uno degli stati promessi dalla pubblicità.

Nessun suono, il luogo sembrava deserto.

Gridò e immaginò di sentire qualcuno rispondere. Si diresse verso il luogo da cui gli era sembrato che provenisse la voce.

Nessuno. Niente. Soltanto una catena all’entrata di una caverna per impedire l’accesso ai visitatori.

La scavalcò. Si guardò intorno nell’oscurità.

Si sentiva formicolare dappertutto.

Nell’ombra alle sue spalle una voce molto bassa disse: «Non mi deludi mai».

Shadow non si voltò. «Strano. Deludo sempre me stesso, però. In continuazione.»

«Ti sbagli» ribatté la voce. «Hai fatto quello che dovevi fare e anche di più. Hai attirato su di te l’attenzione di tutti, in modo che non guardassero mai la mano in cui era nascosta la moneta. Si chiama indirizzo erroneo, giusto? E c’è una grande potenza nel sacrificio di un figlio, potenza più che sufficiente per far girare la ruota. A dire la verità sono orgoglioso di te.»

«Era una truffa. Un imbroglio combinato. Di vero non c’era niente. Era una trappola per un massacro.»

«Esattamente» disse la voce di Wednesday dall’ombra. «Era un tavolo dove si barava. Ma era anche l’unico tavolo da gioco in città.»

«Voglio Laura» disse Shadow. «Voglio Loki. Dove sono?»

Nessuna risposta. Una spruzzata di pioggia lo colpì. Un tuono risuonò poco lontano.

Si inoltrò nella grotta.

Loki Lie-Smith sedeva per terra con la schiena appoggiata a una gabbia metallica. Dentro la gabbia c’erano alcuni pixy ubriachi che armeggiavano con un alambicco. Aveva addosso una coperta che lasciava vedere soltanto la sua faccia, e le mani, pallide e lunghe, appoggiate sopra. Sulla sedia vicino a lui era stata appoggiata una lanterna elettrica. Le pile erano quasi scariche e gettava una debole luce giallina. Loki era pallido e malconcio.

I suoi occhi, però, i suoi occhi fiammeggiavano ancora mentre guardava Shadow attraversare la caverna e fermarsi a pochi passi da lui.

«Sei in ritardo» gli disse con una voce gutturale. «Ho scagliato la lancia. La battaglia è stata dedicata e ha avuto inizio.»

«Davvero?» chiese Shadow.

«Davvero» rispose Loki. «Perciò non ha più nessuna importanza quello che fai tu.»

Dopo un momento di riflessione Shadow disse: «La lancia che hai scagliato per scatenare lo scontro, come in tutta quella storia a Uppsala… è di questo che ti alimenti, vero?».

Silenzio. Sentiva l’altro respirare, rantolare.

«Ci sono arrivato finalmente» continuò. «Più o meno. Non sono sicuro quando, forse sull’albero, forse prima. È stato qualcosa che mi ha detto Wednesday a Natale.»

Loki si limitò a fissarlo da terra senza parlare.

«È un imbroglio che ha bisogno di due soci, per funzionare. Come la truffa del vescovo con la collana di diamanti e del poliziotto che lo arresta. Come quella del tizio con il violino e dell’altro che vuole comprarlo. Due uomini che apparentemente stanno su due fronti opposti e invece fanno lo stesso gioco.»

«Sei ridicolo» mormorò Loki.

«Perché? Ho apprezzato quello che hai fatto al motel. Niente male. Volevi essere presente per accertarti che andasse tutto secondo i tuoi piani. Io ti ho visto, ti ho perfino riconosciuto e ho capito chi eri in realtà. Eppure non sono riuscito a fare il collegamento tra te e il signor World.»

A quel punto Shadow alzò la voce: «Puoi uscire» disse in direzione della grotta. «Ovunque tu sia. Vieni fuori.»

Il vento ululò nell’ingresso della caverna portando dentro una spruzzata d’acqua. Shadow rabbrividì.

«Sono stufo di essere trattato come un cretino» disse. «Fatti vedere. Lascia che ti veda.»

Ci fu un mutamento nelle ombre in fondo alla caverna, una massa informe sembrò acquistare solidità e un’altra si agitò. «Tu sai troppe cose, ragazzo mio» disse il borbottio familiare di Wednesday.

«Non ti hanno ucciso, dunque.»

«Mi hanno ucciso» rispose la voce. «Altrimenti non avrebbe funzionato mai.» Era una voce debole, non proprio fievole, ma a Shadow faceva pensare a una vecchia radio mal sintonizzata su una stazione lontana. «Se non fossi morto davvero non saremmo mai riusciti a portarli tutti qui» continuò Wednesday. «Kalì e le Morrigan, gli albanesi di merda e… be’, li hai visti anche tu. È stata la mia morte a riunirli qui. Ero l’agnello sacrificale.»

«No» ribatté Shadow, «eri il capro traditore.»

L’apparizione nell’ombra vortice. «Niente affatto. Ciò implicherebbe da parte mia la volontà di tradire i vecchi dèi per gli dèi nuovi. E non è questo che stavamo facendo.»

«Per niente» sussurrò Loki.

«Lo vedo» disse Shadow. «Non volevate tradire qualcuno, voi tradivate tutti.»

«Direi che è esatto» rispose Wednesday. Sembrava soddisfatto di sé.

«Volevate un massacro. Un sacrificio di sangue. Un sacrificio di dèi.»

Il vento diventò più forte e l’ululato all’ingresso della caverna era un urlo lancinante che esprimeva un dolore incommensurabile.

«E perché no? Sono rimasto intrappolato in questa fottuta terra per quasi milleduecento anni. Il mio sangue è debole, ho bisogno di nutrimento.»