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E sapeva già dove doveva andare. Aveva bevuto l’acqua del tempo, che sgorga dalla sorgente del destino: vedeva la montagna.

Leccò il sangue sul dorso della mano meravigliandosi della saliva e si mise in marcia.

Era un’umida giornata di marzo, insolitamente fredda per la stagione. I temporali dei giorni precedenti avevano sferzato anche gli stati meridionali, il che voleva dire che a Rock City, sulla Lookout Mountain, i veri turisti erano pochi. Le luminarie natalizie erano state smontate, e i visitatori dell’estate non avevano ancora cominciato ad arrivare.

Comunque c’era una folla, perfino un pullman turistico arrivato quella mattina con decine di uomini e donne dalle abbronzature perfette e dai sorrisi scintillanti, rassicuranti. Sembravano giornalisti televisivi e ci si poteva quasi immaginare che fossero fatti di puntolini fosforescenti: quando si muovevano lasciavano macchie indistinte. Una Humvee nera era parcheggiata proprio di fronte all’ingresso.

Quelli della televisione percorrevano con aria decisa tutta Rock City, fermandosi a parlare tra loro con voci garbate e ragionevoli vicino alla roccia in equilibrio.

Non erano gli unici esseri umani di quest’ondata di visitatori. Chi avesse percorso i sentieri di Rock City quel giorno avrebbe forse notato persone che sembravano divi del cinema, altri che sembravano alieni, e altri ancora che sembravano soprattutto un’idea di persone, niente affatto persone reali. Li avrebbe potuti vedere, certo, ma più probabilmente non li avrebbe notati per niente.

Erano arrivati a Rock City a bordo di lunghe limousine, piccole automobili sportive e fuoristrada enormi. Molti di loro indossavano gli occhiali da sole con quell’atteggiamento di chi li porta d’abitudine anche in interni e non li toglie volentieri. C’erano abbronzature e abiti eleganti, occhiali e sorrisi e cipigli. Erano persone di tutte le fogge e le dimensioni, tutte le età e gli stili.

In comune avevano quell’aria molto particolare che dice: tu mi conosci, o forse mi dovresti conoscere. Una familiarità immediata che è anche una lontananza, un aspetto, un atteggiamento, la sicurezza che il mondo è fatto per loro e che li accoglie sempre a braccia aperte.

Il ragazzo grasso si muoveva tra questa gente trascinando i piedi come chi fosse riuscito a diventare famoso, celebre perfino al di là delle proprie aspettative, malgrado l’evidente mancanza di attitudine per i rapporti sociali. Il suo cappotto nero svolazzava nel vento.

Una creatura in piedi accanto alla bancarella delle bibite nella Mother Goose Court tossì per attirare la sua attenzione. Era una creatura enorme, con lame affilate come bisturi che gli spuntavano dalla faccia e dalle dita. Aveva una faccia cancerosa. «Sarà una grande battaglia» gli disse con voce glutinosa.

«Macché battaglia» rispose il ragazzo grasso. «Qui stiamo per assistere a un cambiamento di paradigma. Una riorganizzazione. Modalità come battaglia sono decisamente troppo Lao Tzu.»

La creatura cancerosa batté le palpebre. «Aspetta» fu tutto quello che disse.

«Comunque» riprese il ragazzo grasso, «sto cercando il signor World. L’hai visto?»

La cosa si grattò con una delle sue lame, il labbro inferiore tumorale spinto in fuori in un’espressione concentrata. Poi annuì. «Da quella parte» disse.

Il ragazzo grasso si allontanò senza ringraziare nella direzione indicata. La creatura cancerosa aspettò a parlare fino a quando il ragazzo non fu lontano.

«Sarà una battaglia, invece» disse a una donna con la faccia macchiata di puntolini fosforescenti.

Lei annuì e si protese verso di lui. «E lei come si sente, in vista dello scontro?» chiese in tono comprensivo.

Lui batté le palpebre e cominciò a raccontarglielo.

La Ford Explorer di Town era dotata di un sistema satellitare, un piccolo schermo collegato al satellite che dava la posizione della macchina. Ciò nonostante una volta a sud di Blacksburg, lungo le strade di campagna, Town riuscì a perdersi: quello che percorreva non assomigliava mai all’intrico di linee sullo schermo. Lungo un sentiero si fermò, abbassò il finestrino e chiese a una bianca grassa trascinata da un cane lupo nella passeggiata mattutina le indicazioni per arrivare alla fattoria del frassino.

La donna annuì, indicò un punto vago e gli spiegò come arrivarci. Town non riuscì a capire niente ma la ringraziò molto lo stesso, rialzò il finestrino e si allontanò approssimativamente nella direzione che lei gli aveva segnalato.

Guidò per altri quaranta minuti lungo strade di campagna che sembravano non finire mai, e che non erano mai quella che stava cercando. Aveva cominciato a mordersi il labbro inferiore.

«Sono troppo vecchio per queste cazzate» disse a voce alta apprezzando il tono da divo cinematografico con cui aveva pronunciato la battuta.

Correva veloce. Aveva lavorato quasi tutta la vita in un settore del governo conosciuto soltanto con le iniziali, e se una decina di anni prima avesse lasciato davvero l’incarico governativo per andare a lavorare nel settore privato era un argomento di discussione ancora aperto: a volte pensava di sì, a volte di no. Comunque erano solo gli sprovveduti a credere che ci fosse una differenza.

Era quasi sul punto di rinunciare, quando in cima a una collina vide il cancello con il cartello dipinto a mano. Come gli era stato detto c’era scritto soltanto: FRASSINO.

Si fermò, scese dalla Ford Explorer e slegò il filo di ferro che teneva chiuso il cancello. Poi tornò in macchina e lo superò.

Era come cucinare una rana, pensò. La metti nell’acqua e alzi la fiamma. Quando la rana s’accorge che c’è qualche cosa che non va è già cotta. Il mondo in cui lavorava era troppo strano. Non c’era terreno solido sotto i piedi, e l’acqua bolliva sempre violentemente in pentola. Quando era stato trasferito all’Agenzia sembrava tutto semplice, mentre adesso era tutto… non complicato, decise, bizzarro, sostanzialmente. Alle due di notte era andato nell’ufficio del signor World a ricevere gli ordini.

«Hai capito?» chiese il signor World porgendogli un coltello in un fodero di pelle scura. «Tagliami un ramo. Non è necessario che sia più lungo di cinquanta, sessanta centimetri.»

«Affermativo» disse lui. E poi: «Perché devo farlo, signore?».

«Perché te lo ordino» rispose piattamente il signor World.

«Trova l’albero. Esegui il lavoro. Raggiungimi a Chattanooga. Non perdere tempo.»

«E dello stronzo che ne facciamo?»

«Shadow? Se lo vedi evitalo. Non toccarlo. Non perdere tempo nemmeno a dargli una lezione. Non voglio che diventi un martire. Nello schema di gioco attuale non c’è posto per i martiri.» Sorrise, il solito sorriso sfregiato. Il signor World si divertiva con niente. Town lo aveva notato più di una volta. Lo aveva divertito interpretare la parte dell’autista in Kansas, dopotutto.

«Senta…»

«Niente martiri, Town.»

Town aveva annuito e, preso il coltello, aveva ingoiato la rabbia che gli montava dentro.

L’odio che Town provava per Shadow era ormai diventato parte di lui. Prima di addormentarsi vedeva la sua faccia solenne, il suo sorriso che non era proprio un sorriso, quel modo che Shadow aveva di sorridere senza sorridere e che a lui faceva venire la voglia di tirargli un pugno nella pancia, e anche mentre si addormentava sentiva di stringere le mascelle, le tempie che pulsavano, la gola che bruciava.

Percorse il prato, superò una fattoria abbandonata. Oltre il dosso vide l’albero. Parcheggiò e spense il motore. L’orologio del cruscotto segnava le sei e trentotto minuti. Lasciò le chiavi nel quadro e si avvicinò all’albero.

Era un grande albero. Le sue proporzioni sfuggivano a ogni scala di valori: Town non avrebbe saputo dire se era alto tre o venti metri. Aveva una corteccia grigia e levigata come una sciarpa di seta.

Al tronco era legato un uomo nudo, poco sollevato da terra, sostenuto da un reticolo di funi, e ai piedi dell’albero c’era qualcosa avvolto in un lenzuolo. Passandogli accanto Town spostò il lenzuolo con un piede e capì di cosa si trattava. La parte devastata della faccia di Wednesday lo guardò.