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«Ma la battaglia…»

«Se lui è spacciato, l’esito della battaglia non ha più importanza.» Il giovane aveva tutta l’aria di aver bisogno di una coperta, di una tazza di caffè molto zuccherato e di qualcuno che lo portasse da qualche parte dove poter tremare e balbettare fino a quando non avesse ritrovato il senno. Teneva le braccia lungo i fianchi, rigide.

«Dov’è? Vicino?»

Il ragazzo fissò il tulipano e scosse la testa. «Molto lontano.»

«Be’» disse lei. «Qui hanno bisogno di me. Non posso andarmene così. E poi come pensi che potrei andarci? Non so volare come te.»

«No» rispose Horus. «Non puoi volare.» Poi guardò in alto con serietà e indicò l’altro punto che usciva dalle nubi sempre più nere e girava in tondo diventando sempre più grande. «Lui sì.»

Dopo altre ore inutili al volante Town odiava il sistema satellitare almeno quanto odiava Shadow. Non c’era passione nel suo odio, però. Aveva creduto che trovare la strada fino alla fattoria, fino al grande frassino argenteo, fosse un’impresa difficile, ma trovare la strada per tornare indietro si stava rivelando molto peggio. Indipendentemente dai sentieri che prendeva, dalla direzione in cui viaggiava lungo le strette strade di campagna — le tortuose strade secondarie della Virginia che dovevano essere nate, ne era sicuro, come sentieri per i cervi e le vacche — finiva sempre per ripassare di nuovo davanti alla fattoria, davanti al cartello dipinto a mano: FRASSINO.

Assurdo, no? Doveva soltanto fare la strada a ritroso, prendere a sinistra ogni volta che aveva preso a destra nel venire, e a destra ogni volta che aveva preso a sinistra.

Solo che l’ultima volta aveva fatto esattamente così e adesso rieccolo davanti alla fattoria. In cielo si stavano addensando nubi scure che annunciavano il temporale e benché fosse mattina faceva già buio come di notte; lo aspettava un lungo viaggio, di quel passo non sarebbe mai arrivato a Chattanooga entro il pomeriggio.

Il cellulare gli dava solo il messaggio Ricerca di rete. La cartina nel cassetto del cruscotto riportava le strade principali, Interstate e autostrade vere e proprie, ma sembrava non considerare altro. E non c’era in giro un’anima a cui chiedere. Le case erano molto lontane dalle strade, e sembravano tutte disabitate. Oltretutto la spia del carburante si stava spostando verso la riserva. Sentì il rombo lontano di un tuono e un’isolata goccia di pioggia cadde pesante sul parabrezza.

Perciò quando vide la donna che camminava lungo il ciglio della strada, Town sorrise involontariamente. «Grazie a dio» esclamò a voce alta, e le si avvicinò. Abbassò il finestrino. «Signora, mi scusi, credo di essermi perso. Può dirmi come si fa ad arrivare all’autostrada 81 da qui?»

Lei lo guardò e disse: «Sa, non credo di riuscire a spiegarglielo. Però se vuole posso accompagnarla». La donna era pallida, aveva i capelli lunghi e scuri tutti bagnati. «Salga» disse senza esitare Town. «Prima di tutto dobbiamo fare benzina.»

«Grazie» rispose lei. «Avevo proprio bisogno di un passaggio.» Salì. I suoi occhi erano straordinariamente azzurri. «C’è un bastone sul sedile» osservò stupita.

«Lo butti dietro. Dov’è diretta?» chiese. E poi: «Signora, se riesce a farmi arrivare a una pompa di benzina e sulla statale io l’accompagno fin sulla porta di casa».

«Grazie. Ma credo di andare più lontano di lei. Mi basta un passaggio fino alla statale, lì magari trovo un camionista con cui proseguire.» Sorrise, un sorriso deciso, un po’ obliquo. Town ne fu conquistato.

«Signora» le disse, «io sono meglio di qualsiasi camionista.» Sentiva il suo profumo: era inebriante e intenso, un po’ nauseante, come di magnolie o gigli, però non gli dispiaceva.

«Vado in Georgia» disse lei allora. «È molto lontano.»

«Io vado a Chattanooga. La porto più in là possibile.»

«Benissimo» disse lei. «Come si chiama?»

«Mi chiamano Mack» rispose il signor Town. Quando abbordava le donne nei bar a volte a questa dichiarazione faceva seguire la frase: «E quelle che mi conoscono bene mi chiamano Big Mack». In questo caso era meglio aspettare, con un viaggio così lungo davanti c’era tutto il tempo per conoscersi. «E tu come ti chiami?»

«Laura.»

«Bene, Laura, sono sicuro che diventeremo amici.»

Il ragazzo grasso trovò il signor World nella Rainbow Room, una sezione murata del sentiero che aveva incollate sui vetri pellicole di plastica colorate, verdi, rosse e gialle. Camminava impaziente da una finestra all’altra guardando un mondo di volta in volta dorato, rosso, verde. Aveva i capelli color carota, quasi rossi, tagliati a spazzola. Portava un impermeabile Burberry.

Il ragazzo grasso tossì. Il signor World alzò gli occhi.

«Mi scusi. Signor World?»

«Sì. E tutto a posto?»

Il ragazzo grasso aveva la bocca secca. Si leccò le labbra e disse: «Ho preparato tutto. Non ho ancora ricevuto la conferma dagli elicotteri».

«Quando sarà il momento arriveranno.»

«Bene» disse il ragazzo grasso. «Bene.» Rimase lì senza parlare ma con l’aria di non volersi muovere. Aveva un livido sulla fronte.

Dopo qualche istante il signor World disse: «Hai bisogno di qualcosa?».

Una pausa. Il ragazzo deglutì e annuì. «Infatti» disse. «Sì.»

«Preferisci che ne parliamo in privato?»

Il ragazzo annuì ancora.

Il signor World lo accompagnò nel suo centro operativo: un’umida grotta che conteneva il diorama di un gruppo di pixy ubriachi indaffarati a distillare un liquore con l’alambicco. Un cartello diceva ai turisti che era vietato l’ingresso durante i lavori di ristrutturazione. I due sedettero sulle sedie di plastica.

«Che cosa posso fare per te?» chiese il signor World.

«Sì. Okay. Ecco, due cose. Okay. Primo: cosa stiamo aspettando? E secondo: la seconda è più difficile. Senta… abbiamo i fucili. Bene. Abbiamo la potenza di fuoco. Loro… loro hanno delle spade del cazzo, coltelli, martelli e asce di pietra. Qualche cric. Noi abbiamo le bombe intelligenti.»

«Che però non useremo» precisò l’altro.

«Lo so. Ce l’ha già detto. Lo so. È fattibile. Però. Senta… da quando ho fatto quel lavoretto alla puttana di Los Angeles, mi sono sentito…»

Si interruppe facendo una smorfia, come se non volesse continuare.

«Ti sei sentito disturbato?»

«Sì. Bella parola. Disturbato. Infatti. Come in un istituto per adolescenti disturbati. Divertente. Sì.»

«E cos’è che ti disturba, esattamente?»

«Be’, noi combattiamo, vinciamo.»

«E questo è fonte di turbamento, per te? Personalmente lo trovo motivo di trionfo e felicità.»

«Sì, però moriranno comunque. Loro sono colombe migratrici, tilacini. Estinti, giusto? Chi se ne frega? Invece così sarà un bagno di sangue.»

Il signor World annuì.

Lo stava ascoltando. Bene. Il ragazzo grasso continuò: «Senta, non sono l’unico a pensarla in questo modo. Ne ho parlato con i ragazzi di Radio Modern che sono per trovare un accordo pacifico; e gli intoccabili sono quasi tutti del parere di lasciare che siano le leggi di mercato a risolvere il problema. Io sono… come dire… la voce della ragione».

«Davvero, lo sei. Sfortunatamente però ti mancano alcune informazioni.» Il sorriso che seguì quella frase era un sorriso sfregiato.

Il ragazzo batté le palpebre. «Signor World?» disse. «Che cosa è successo alle sue labbra?»

World sospirò. «La verità» disse «è che un giorno qualcuno le ha cucite. Tanto tempo fa.»

«Accidenti» disse il ragazzo grasso. «Come una storia di omertà.»

«Vuoi sapere che cosa stiamo aspettando? Perché non abbiamo attaccato la notte scorsa?»

Il ragazzo grasso annuì. Sudava, ma era un sudore freddo.

«Non abbiamo sferrato l’attacco perché sto aspettando un bastone.»

«Un bastone?»

«Esatto. Un bastone. E sai che cosa farò, con quel bastone?»