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Era troppo presto per la cena. In ogni caso, non avevo fame. Decisi di fare una passeggiata.

Mi diressi a sud lungo il lago. La spiaggia era piatta e relativamente larga. Ci si camminava agevolmente. Qui e là un torrente scendeva dalla scogliera. Erano piccoli e quasi asciutti. Li superai.

La spiaggia si restringeva. La vegetazione incombeva sulla mia destra e sentivo l’odore umido e opprimente di una foresta. Mi voltai a guardare. Il campo era nascosto alla vista.

— Ha-runh - fece qualcosa.

Guardai davanti a me. Una creatura era spuntata dalla vegetazione. Era ferma sulla spiaggia, a quasi dieci metri di distanza, e mi osservava con un piccolo occhio scuro. Non sembrava preoccupata. Perché avrebbe dovuto? Era grossa come un rinoceronte.

Restai immobile, terrorizzata ma anche interessata.

Era un quadrupede. Niente di simile a un cornacurve. La pelle era bruna e senza pelo. Le zampe erano grosse. Aveva una lunga coda che teneva curva in modo aggraziato. La punta si muoveva lievemente avanti e indietro. Che cosa significava? Era un segno di buon umore?

Dalla testa dell’animale spuntavano delle strane corna piatte. Ce n’erano due paia. Mi facevano pensare ai tetti a sbalzo di certi moderni edifici. O a una specie di fungo. Erano rivestite da una lanugine o una pelliccia corta e sottile.

Funghi di velluto marrone. Tetti a sbalzo di velluto marrone.

L’animale restò a osservarmi per uno o due minuti. Poi si diresse elegantemente verso il lago, le grosse zampe che non facevano quasi nessun rumore, ed entrò nell’acqua bassa. Aveva un labbro superiore flessibile, quasi prensile, che sollevò mentre beveva, mettendo in mostra i denti. Erano lunghi, piatti e simili a pale.

Quasi certamente un erbivoro. Sospettai che fosse un brucatore.

Sollevò il capo e mi guardò di nuovo, poi si rimise a bere.

Era ora che me ne andassi. Arretrai lungo la spiaggia. L’animale continuò a bere, ma incominciò ad agitare la coda. Un movimento rapido e nervoso. Ebbi la sensazione che indicasse irritazione.

Smisi di muovermi.

L’animale tornò a riva.

Dove potevo scappare? Sarei stata più al sicuro nell’acqua o nella foresta?

L’animale indugiò un momento e mi fissò, poi si voltò e se ne andò trottando verso sud lungo la spiaggia. Restai a guardarlo allontanarsi, l’ampio posteriore che ondeggiava, la coda che si muoveva su e giù. Da questa prospettiva l’animale appariva stupido, ma non credo che mi sarebbe parso tale se fosse venuto verso di me.

Feci ritorno al campo, lanciando un’occhiata da sopra la spalla di quando in quando per assicurarmi che non mi stesse arrivando niente alle spalle. La spiaggia rimase deserta.

Marina era nella sua cupola e stava dando da mangiare delle foglie a un bipede. — Non vuole niente di quello che gli do. Dovrò lasciarlo andare, a meno che non decida di sezionarlo.

— Devo parlarti di quello che ho visto.

Mi lanciò un’occhiata. Oggi portava lenti a contatto dorate. Si intonavano con gli orecchini, che erano intricati e pendenti e tintinnavano ogni volta che si muoveva. — Mi serve un registratore?

— Sì.

Ne trovò uno e l’accese. — Okay.

Feci una descrizione dell’animale.

— Così grande?

— Non sono particolarmente brava a giudicare le dimensioni. Ma aveva zampe come quelle di un elefante. Questo particolare quanto lo renderebbe grosso?

— Non piccolo. Potrebbe trattarsi di un animale domestico?

— Non lo so. Ma non ho visto niente di simile in alcun villaggio.

— Se non lo è. — Si tirò il labbro inferiore. — Altri problemi. Altri interrogativi. Vorrei sapere quale divinità ringraziare. Spense il registratore. — Domani andrò laggiù a dare un’occhiata alle impronte. Se sarò fortunata, troverò degli escrementi. Questo ci dirà che cosa mangia quella creatura.

— Probabilmente Nia sa che cos’è.

Marina annuì. — Dovrei passare veramente un po’ di tempo con lei. Che ne diresti di domani? Presentaci. Potrebbe venire con me a cercare mucchi di merda.

— Sembra fantastico.

La lasciai lì che cercava ancora di alimentare il bipede, che era un grazioso esemplare. Le penne sulla schiena erano di un grigio tenue, il ventre color bianco panna. Le zampe anteriori finivano in artigli rosa e le zampe posteriori artigliate avevano lo stesso colore delicato. L’animale si muoveva irrequieto avanti e indietro nella gabbia. Le zampe anteriori artigliate prendevano il cibo di Marina e lo lasciavano cadere; quelle posteriori allonanavano a calci le foglie.

Mi recai nella cupola grande. Questa volta seguii un’insegna che mi condusse nello spazio comune, una vasta sala piena di bassi tavoli e comode poltroncine. Era quasi deserta. Vidi Brian, seduto con un paio di cinesi. Sollevò una mano in un cenno di saluto. Gli feci un cenno in risposta e mi avvicinai al bar.

Il barista era un uomo tarchiato dai lineamenti maya. Di norma i suoi occhi erano di un comune marrone scuro. Ogni tanto, però, quando la luce li raggiungeva con la giusta angolazione, l’iride diventava verde, uno scintillante colore metallico, sorprendente e inquietante.

— Li Lixia. — Mi tese la mano. — Gustavo Isidis Planitia. Faccio parte del team medico.

Ci stringemmo la mano. Mi chiese di nominare la mia tossina. Dissi chablis.

Riempì un bicchiere. — Sei ancora in quarantena?

— Che cosa vuoi dire?

— Eddie ha detto in giro di lasciarti in pace. Dovremmo concederti un sacco di tempo per riprenderti da chissà che.

Assaggiai il vino. Era giovane e aspro. Non c’era stato alcun modo pratico di mantenere in funzione la cantina durante il lungo viaggio di allontanamento dal nostro sistema, e nessuna buona ragione per farlo. Le persone dormivano. I computer non bevevano. Tutto il nostro vino era stato fatto più o meno nell’ultimo anno, e aveva tutto questo stesso sapore, se non peggiore.

— Probabilmente Eddie ha ragione — dissi. — Abbiamo qualche problema a riadattarci.

— Credo che sia una macchinazione — disse Gustavo. — Conosciamo la posizione di Eddie. Credo che stia cercando di controllare le informazioni, da voi a noi e da noi a voi.

Lo guardai. I suoi occhi erano verdi in quel momento e brillavano come il piumaggio di una qualche specie di uccello tropicale.

— Questa mi sembra paranoia — dissi.

— È un termine tecnico, e superato. Quello che intendi dire è che pensi che io nutra un sospetto infondato. Quello che hai detto è che pensi che io sia pazzo.

— Okay. Ritiro la paranoia. Ma credo che tu abbia torto. Grazie per il vino.

— È stato un piacere. E sono contento di averti incontrata.

Mi sedetti da sola. C’era una ciotola di salatini assortiti per aperitivo sul tavolo: noci e frutta secca e altre cose che non riuscii a identificare. Piuttosto gustose. Ne mangiai una manciata e sorseggiai il mio vino.

Poteva anche essere vero. Forse Eddie stava cercando di isolarci. D’altra parte non ero dell’umore adatto ai giochetti politici. Forse lui lo sapeva e mi stava semplicemente proteggendo.

Brian si fermò nell’uscire e mi presentò i suoi compagni. Erano giovani e dall’aria zelante, del team di planetologia. S’inchinarono, mi strinsero la mano e dissero che era un piacere.

— Dovremo parlare — disse Brian.

— Okay.

— Non vediamo l’ora — disse uno dei cinesi.

— Siamo impazienti — aggiunse l’altro.

Se ne andarono. Bevvi ancora un po’ di vino e guardai la finestra sopra di me. Era esagonale, sistemata nel soffitto curvo. Nel cielo c’era una nuvola, che si muoveva portata dal vento e si andava oscurando man mano che gli ultimi raggi di sole l’abbandonavano.

— Posso farti compagnia? — chiese Eddie.

Feci il gesto dell’assenso.

Lui si sedette in una poltroncina. — Derek ha parlato con Nia e con l’oracolo. Lui è disposto a venire con noi. Lei dice che ci deve pensare.

Feci il gesto dell’intesa.