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Eddie bevve un lungo sorso dalla bottiglia che teneva in mano — era acqua minerale — e mise la bottiglia sul tavolo, poi prese una grossa manciata di salatini per aperitivo. Guardò verso di me. — C’è della noce di cocco qui in mezzo?

— No.

— Non mi piace la noce di cocco. — Mangiò i suoi salatini, mandandoli giù con altra acqua minerale. — Pensi davvero che la mia idea sia cattiva?

— Non funzionerà. Ci cacceremo nei guai. Ed è immorale. Le persone di qui hanno il diritto di prendere le loro decisioni basandosi su informazioni fondate.

Lui aggrottò la fronte. — Io credo che la Ivanova abbia un vantaggio. Sto cercando di fare qualcosa a questo riguardo.

— E come? — Mangiai altri salatini.

— Questi individui sanno cosa significano termini come stranieri e commercio. Quando la Ivanova parlerà di scambi culturali, loro la capiranno. Ma non sanno niente della moderna tecnologia. E non hanno la minima idea di ciò che succede quando una società industriale viene in contatto con una società che ha a mala pena una cultura agricola.

— Io non direi "a mala pena". Mi sembra che abbiano un’agricoltura alquanto sviluppata. E allevano animali. Quello che non hanno è un apparato statale, il che può essere segno di una società primitiva o di una altamente sviluppata.

— Tu stai scherzando, Lixia. Questi individui sono tribali, pre-urbani e pre-industriali. Non hanno il genere di società che immaginano gli anarchici. Hanno quello che aveva la mia gente fino alla fine del Diciannovesimo Secolo. — Tacque un momento e mi guardò con espressione pensierosa. — Tu non hai intenzione di aiutarmi, vero?

— No.

— Intendi denunciarmi?

— Al comitato dell’intera nave? No. Non sono sicura di quale sarebbe l’accusa. Corruzione di un traduttore? Condotta non adatta a uno studioso?

— Dio, che casino. — Si alzò e uscì dalla sala.

Non avrei saputo dire dal tono della sua voce se fosse adirato o semplicemente depresso. Più probabilmente adirato. In quel momento non me ne importava niente. Mi sarebbe importato al mattino quando fossi stata sobria. Ma ora… Finii di bere il mio vino e mangiai un’altra manciata di salatini, poi mi alzai. Avevo perso la mia coordinazione e vacillavo leggermente.

— Stai bene? — s’informò Gustavo.

— Sì. — Decisi di saltare la cena. Non avevo fame e non mi andava di essere la sola persona ubriaca nella sala. Curioso che un solo bicchiere di vino dovesse fare un tale effetto. Andai nella mia stanza e mi misi a letto.

Quando mi svegliai, guardai in su e non vidi niente fuori dalla finestra. Un grigiore indistinto. C’erano goccioline d’acqua sul vetro. Avvertivo l’umidità nell’aria, perfino all’interno.

Mi alzai e mi feci una doccia, poi indossai una tuta, una giacca, pesanti calzini e scarpe.

Fuori faceva fresco, forse perfino freddo. La scogliera era invisibile. Scorgevo a stento gli alberi ai margini del campo. Le cupole attorno a me avevano perso gran parte del loro colore e della loro compattezza. Sembravano galleggiare nella nebbia: ombre e bolle.

Mi incamminai verso il lago. Riuscivo a vedere i primi metri d’acqua. Si muoveva appena e non faceva alcun rumore quando lambiva la spiaggia di ciottoli. Perché la nebbia era così affascinante? Era forse il mistero? Il senso di possibilità? C’era una vecchia storia che sosteneva l’esistenza di molti mondi alterni in stretta vicinanza. A volte i mondi si toccavano e, per un momento, si confondevano fra loro. Questo creava la nebbia. Era la fusione di diverse realtà. A volte, quando i mondi si separavano e la nebbia si diradava, le persone si trovavano in luoghi inaspettati. Erano passate dall’uno all’altro e si trovavano in una realtà alterna.

Decisi che non avevo alcun interesse per una realtà alterna. Non in quel momento. Benché mi piacesse l’idea che la vita fosse confusa e offuscata dalla possibilità. Niente era stabile. Niente era certo. Non c’erano margini netti, né corsi immutabili.

Mi diressi alla cupola grande e feci colazione con Marina e un terzetto di biologi. Mi posero domande sui nativi. Risposi come meglio potevo.

— Chia ha incontrato un nativo — disse Marina e indicò una piccola donna bruna.

— Davvero?

— Si. A nord del campo. Stavo cercando… — Esitò. — Non abbiamo ancora un nome per quelli. Assomigliano a centopiedi. Sono lunghi venti centimetri e vivono sotto le pietre nell’acqua. — Fece una pausa. — In gran parte sono blu.

— Parlaci del nativo — la sollecitò Marina.

— Stava togliendo trappole dall’acqua. Ci siamo guardati per un istante, poi lui è tornato al suo lavoro e io al mio. Non mi ero resa conto di quanto fossero grandi.

— Quella era Nia — dissi. — È una femmina e non è più alta di me.

— Tu sei alta, Lixia, in confronto alla gente del mio paese. E la nativa era molto… — Esitò di nuovo. — Molto grande e massiccia.

— È la pelliccia a fare la differenza. Non sembra tanto grande quando è bagnata.

— Ah — disse la piccola donna. — Come un gatto. — Poi aggiunse: — Ho incontrato tigri nella giungla. Loro amano nuotare. Sembrano grandi anche quando escono da un fiume.

Feci il gesto che significava "non lo so per esperienza personale, ma con ogni probabilità hai ragione".

Marina disse: — Mi mancano i gatti. Continuo a sostenere che dovremmo allevarne alcuni.

— Non ci sono topi — osservò uno degli altri biologi. — Salvo che nei laboratori, e non sono un problema.

— Lo diventeranno — disse Marina. — Qualcuno ne perderà qualche esemplare. Entreranno negli orti. Avremo una pestilenza, proprio come nella Bibbia. Ratti ed emorroidi.

— Che cosa? — saltò su il terzo biologo. Era grande e grosso e quasi sicuramente polinesiano.

— I Filistei rubarono l’Arca dell’Alleanza, qualunque cosa fosse, e l’Onnipotente li tormentò con ratti ed emorroidi. Non sto mentendo. È scritto nella Bibbia.

— Se accadrà, alleveremo qualche gatto — disse l’uomo. Sembrava un tipo calmo e pratico.

La piccola donna corrugò la fronte. — Non capisco di quale utilità possano essere i gatti nella cura delle emorroidi.

— Devo lavorare — dissi e me ne andai.

Entro mezzogiorno il cielo al di sopra della mia finestra si era fatto di un nebbioso verdeazzurro. Il mio rapporto era un pasticcio. Avevo un sacco di informazioni, ma nessuna struttura. Nessuna cornice ideologica.

Oh, essere una marxista! Soprattutto una volgare marxista. Loro avevano sempre una spiegazione. Di solito veniva dal Diciannovesimo Secolo. Engels sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Senza dubbio Fred sarebbe stato in grado di spiegarmi questo pianeta. Forse avrei dovuto trovare un computer biblioteca e richiamare antichi documenti sulla teoria sociale. Gettai sul letto il mio taccuino.

Si aprì la porta. Derek fece capolino e disse: — Hai visite.

Nia entrò nella stanza, vestita con pantaloncini grigio chiaro e una camicia rosso borgogna. La camicia portava stampate grosse lettere bianche. Dicevano: I MIGLIORI AUGURI DALLA CONFEDERAZIONE IROCHESE.

Una donazione. Avevano voluto contribuire tutti alla spedizione. La nave era piena di oggetti con su nomi dati da circoli e cooperative, città, associazioni, tribù e kibbutzim. La lampada nella mia cabina veniva dall’Associazione dei Lavoratori Aeronavali. Sul paralume c’era l’emblema dell’associazione: due mani strette davanti a un dirigibile.

Derek disse: — Ho cercato qualcosa senza scritte, ma è impossibile trovare una camicia di cotone a maniche corte senza un motto.

Nia protestò: — Parlate una lingua che io possa capire.

— Non ha detto niente di importante — le spiegai.

— Bene. Ho deciso di venire con voi.

— Perché?

Lei fece il gesto che significava "perché no?".

— È una buona risposta?

Entrò e si sedette sul pavimento, mettendosi accuratamente in una posizione a gambe incrociate. — No. Voglio scoprire che cosa ne è stato dei miei figli e delle mie cugine. Te ne ho già parlato. E devo andare in quella direzione. Ho promesso di fare del lavoro per Tanajin. — Tacque per un momento. — Qualcuno deve raccontarle quello che è successo alla barca. Qualcuno deve dirle che Ulzai è sparito. Questi vestiti sono stretti. Come può sentirsi a proprio agio la tua gente?