Изменить стиль страницы

«Aspettate!» intervenne Langdon, ormai incapace di assistere passivamente. «Riflettete un attimo. Peter ha preferito sacrificare la sua mano destra piuttosto che rivelare cosa c’è al di là di questa porta, di qualunque cosa si tratti. Siete sicuri di volerlo fare? Aprire questa porta significa in sostanza acconsentire alle richieste di un terrorista.»

«Lei vuole rivedere Peter Solomon?» domandò Sato.

«Certo, ma…»

«Allora le suggerisco di fare esattamente quello che richiede il rapitore.»

«Aprire un antico portale? E lei è convinta che il portale sia questo?»

Sato gli puntò la luce della torcia in faccia. «Professore, io non ho la minima idea di cosa diavolo sia. Ma che si tratti di un ripostiglio o dell’ingresso segreto di un’antica piramide, io intendo aprire questa porta. Sono stata chiara?»

Langdon socchiuse gli occhi alla luce e, dopo un attimo, annuì.

La donna abbassò la torcia e puntò di nuovo il raggio sulla piastra della serratura. «Proceda.»

Anderson, che sembrava ancora contrario all’idea, estrasse molto lentamente la pistola, che poi guardò con aria incerta.

«Oh, per l’amor di Dio!» Sato tese le mani minuscole e gliela strappò, restituendogli la torcia. «Punti quella maledetta luce.» Maneggiò la pistola con la sicurezza di chi è addestrato all’uso delle armi e, senza perdere tempo, tolse la sicura, alzò il cane e prese la mira.

«Aspetti!» gridò Langdon, ma era troppo tardi.

La pistola sparò tre volte.

Langdon ebbe l’impressione che gli si perforassero i timpani.

Questa donna è pazza! In quello spazio minuscolo le detonazioni erano state assordanti.

Anche Anderson sembrava scosso e la mano che puntava la torcia sulla porta crivellata dai proiettili gli tremava leggermente.

La serratura era in frantumi e il legno intorno completamente polverizzato. La porta adesso era socchiusa.

Sato tese il braccio e con la canna della pistola spinse l’anta, che si spalancò sul buio all’interno.

Langdon provò a sbirciare, ma vide soltanto oscurità. Cosa accidenti è questo odore? Da dentro la stanza si spandeva uno strano tanfo.

Anderson varcò la soglia e puntò la torcia sul pavimento, tracciando una scia di luce sulla terra battuta. Il locale era esattamente come tutti gli altri: uno spazio lungo e stretto. I muri di nuda pietra facevano pensare a un’antica prigione. Ma quell’odore…

«Non c’è niente qui dentro» disse Anderson, facendo percorrere al raggio l’intera lunghezza del pavimento. Poi, quando il fascio di luce arrivò in fondo, alzò la torcia per rischiarare la parete.

«Mio Dio…!» gridò.

Lo videro tutti, sconvolti.

Langdon fissò incredulo il recesso più profondo della stanza.

Con suo grande orrore, qualcosa lo stava fissando a sua volta.

36

«In nome di Dio , cosa…?» Sulla soglia dell’SBB 13, Anderson agitò goffamente la torcia e fece un passo indietro.

Arretrò anche Langdon, e lo stesso fece Sato che, per la prima volta quella sera, sembrava colpita. La donna puntò la pistola verso la parete di fondo e, con un gesto, ordinò a Anderson di farle di nuovo luce. Lui sollevò la torcia. Il raggio arrivava fioco, ma era comunque sufficiente per illuminare la faccia pallida e spettrale che li fissava attraverso le orbite prive di vita.

Un teschio umano.

Il teschio era sul piano di una malconcia scrivania di legno sistemata contro la parete. Accanto a esso c’erano due femori umani, più una serie di altri oggetti disposti meticolosamente come su un altare: un’antica clessidra, una boccetta di cristallo, una candela, due piattini contenenti polveri chiare e un foglio di carta. Accanto alla scrivania si stagliava il contorno inquietante di una lunga falce appoggiata al muro, la lama ricurva familiare come quella della Grande Mietitrice.

Sato entrò nella stanza. «Be’, sembra proprio che Peter Solomon abbia più segreti di quanto pensassi.»

Anderson annuì, entrando a sua volta. «E poi parlano di scheletri nell’armadio.» Alzò la torcia ed esaminò il resto del piccolo locale. «E questo odore?» d o m a n d ò arricciando il n a s o . «Che cos’è?»

«Zolfo» rispose con voce neutra Langdon alle sue spalle. «I due piattini sulla scrivania. In quello a destra deve esserci del sale. E nell’altro dello zolfo.»

Sato si voltò a guardarlo, incredula. «E lei come diavolo fa a saperlo?»

«Perché, signora, ci sono stanze esattamente uguali a questa in tutto il mondo.»

Un piano sopra il sotterraneo, l’agente di sicurezza Nunez scortava l’architetto del Campidoglio, Warren Bellamy, lungo il corridoio che si sviluppava per l’intera lunghezza delle fondamenta est. Nunez avrebbe potuto giurare di avere appena sentito esplodere tre colpi d’arma da fuoco, là sotto, smorzati e lontani. Ma non è assolutamente possibile.

«La porta del sotterraneo è aperta» osservò Bellamy, fissando a occhi socchiusi il fondo del corridoio.

Una serata davvero strana, pensò Nunez. Nessuno scende mai laggiù. «Posso sentire cosa sta succedendo» dichiarò afferrando la radio.

«Torni pure al suo lavoro» disse Bellamy. «Sono in grado di proseguire da solo.»

A disagio, l’agente si dondolò sui piedi. «E sicuro?»

Warren Bellamy posò una mano decisa sulla spalla di Nunez. «Figliolo, sono venticinque anni che lavoro qui. Penso di riuscire a trovare la strada.»

37

Mal’akh aveva visto molti posti bizzarri in vita sua, ma solo pochi potevano competere con il lugubre mondo del modulo 3. L’Acquario. La sala faceva pensare a uno scienziato pazzo che si fosse impadronito di un supermercato e poi ne avesse riempito tutti gli scaffali con vasi di vetro contenenti esemplari di ogni tipo e misura. Simile alla camera oscura di un fotografo, l’ambiente era immerso nella foschia rossastra della "luce sicura" che, proiettata da sotto i ripiani, era puntata verso l’alto per illuminare i contenitori pieni di etanolo. L’odore dei prodotti chimici per la conservazione era nauseante.

«Questo modulo ospita più di ventimila specie» stava spiegando la ragazza paffuta. «Pesci, mammiferi, rettili.»

«Tutti morti, spero» commentò Mal’akh, fingendo una voce nervosa.

La ragazza rise. «Sì, certo. Tutti molto morti. Devo ammettere che, dopo aver cominciato a lavorare in questa struttura, non ho osato entrare qui dentro per almeno sei mesi.»

Mal’akh poteva capirne la ragione. Ovunque guardasse c’erano vasi contenenti campioni di forme di vita: salamandre, meduse, ratti, insetti, uccelli e altri esseri che non era in grado neppure di indovinare. E, come se la collezione non fosse stata già abbastanza inquietante di per sé, l’alone rossastro che proteggeva quegli esemplari fotosensibili da una prolungata esposizione alla luce dava al visitatore la sensazione di trovarsi all’interno di un gigantesco acquario nel quale, chissà come, creature morte si fossero riunite per osservarlo dall’ombra.

«Quello è un celacanto» disse la ragazza, indicando un grosso contenitore in plexiglas che ospitava il pesce più brutto che Mal’akh avesse mai visto. «Si riteneva che si fosse estinto insieme ai dinosauri, ma questo esemplare è stato catturato al largo delle coste dell’Africa qualche anno fa e poi donato allo Smithsonian.»

Che fortuna, pensò Mal’akh, che ascoltava a malapena. Era impegnato a esaminare le pareti, in cerca di telecamere di sicurezza. Ne individuò una soltanto: era puntata sulla porta d’ingresso, cosa non sorprendente, dato che quello era probabilmente l’unico accesso.

«E qui c’è quello che le interessa…» continuò la ragazza guidandolo fino al gigantesco contenitore che Mal’akh aveva visto attraverso la finestra. «Il nostro esemplare più grande.» Come il conduttore di un gioco a premi che presenti un’auto nuova, la ragazza indicò con un ampio gesto del braccio la creatura disgustosa. «L’Architeuthis.»