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Il dottor Abaddon ridacchiò. «Immagino che lei abbia ragione.»

«La maggior minaccia alla sicurezza è costituita da roditori e insetti.» Trish spiegò come la struttura prevenisse le infestazioni surgelando tutti i rifiuti dell’SMSC e grazie anche a una caratteristica architettonica denominata "zona morta": un inospitale compartimento fra doppi muri che circondava l’intero edificio come una guaina.

«Incredibile» commentò Abaddon. «Ma dov’è il laboratorio di Katherine e Peter?»

«Modulo 5» rispose la ragazza. «È in fondo a questo corridoio.»

Abaddon si fermò di colpo e si voltò verso destra, in direzione di una piccola finestra. «Santo cielo! Guardi lì!»

Trish rise. «Già, è il modulo 3. Lo chiamiamo l’Acquario.»

«L’Acquario?» ripetè Abaddon, il viso premuto contro il vetro.

«Lì dentro ci sono più di tredicimila litri di etanolo. Ha presente il calamaro gigante di cui le parlavo prima?»

«Quello è il calamaro?» Il dottor Abaddon si voltò per un attimo, gli occhi spalancati. «È enorme!»

«È un Archìteuthis femmina. È lunga più di dodici metri.»

Il dottor Abaddon, apparentemente rapito dalla vista del calamaro, sembrava incapace di staccare gli occhi dal vetro. A Trish, per un momento, quell’uomo adulto fece pensare a un bambino davanti alla vetrina di un negozio di animali, ansioso di entrare per vedere un cucciolo. Cinque secondi dopo, il dottor Abaddon guardava ancora con desiderio al di là del vetro. «Okay, okay» cedette finalmente Trish. Ridendo, inserì la chiave magnetica nel lettore e digitò il suo numero di codice identificativo. «Andiamo. Le faccio vedere il calamaro.»

Entrando nel mondo in penombra del modulo 3, Mal’akh esaminò rapidamente le pareti in cerca di telecamere. L’assistente di Katherine cominciò a dilungarsi a proposito degli esemplari conservati in quel locale. Mal’akh non l’ascoltava. Non era minimamente attratto dai calamari giganti o altro. Il suo unico interesse era come servirsi di quello spazio buio e riservato per risolvere un problema imprevisto.

35

La scala di legno che affondava nei sotterranei del Campidoglio era più ripida e malsicura di qualsiasi scala Langdon avesse mai sceso. Lui respirava più velocemente, adesso, e gli sembrava che i polmoni fossero compressi. L’aria fredda e umida gli riportò alla mente il ricordo della scala, molto simile a questa, di cui si era servito qualche anno prima nella necropoli del Vaticano. La Città dei Morti.

Davanti a lui, Anderson apriva la strada facendo luce con la torcia. Alle sue spalle, Sato lo seguiva da vicino e ogni tanto gli premeva le minuscole mani sulla schiena. Sto andando più in fretta che posso. Langdon inspirò a fondo, cercando di ignorare le pareti che si stringevano su entrambi i lati. Cera a malapena spazio per le spalle, lungo quella scala, e la borsa grattava la parete.

«Forse dovrebbe lasciarla di sopra» gli suggerì Sato da dietro.

«Va bene così» disse Langdon, che non aveva la minima intenzione di perdere di vista la sua borsa. Pensò al pacchetto di Peter: non riusciva neppure a immaginare come potesse collegarsi a qualcosa nei sotterranei del Campidoglio.

«Ancora qualche scalino» annunciò Anderson. «Ci siamo quasi.»

Il gruppo era ormai al buio, oltre la portata dell’unica lampadina della scala. Quando scese l’ultimo gradino, Langdon sentì sotto i piedi un pavimento in terra battuta. Viaggio al centro della Terra.

Sato si fermò dietro di lui.

Anderson alzò la torcia per studiare l’ambiente, che non era tanto un sotterraneo quanto un corridoio angusto che si sviluppava perpendicolarmente alla scala. Puntò il raggio di luce a sinistra e poi a destra.

Langdon vide che il passaggio era lungo appena una quindicina di metri e che su entrambi i lati si aprivano piccole porte di legno, così vicine l’una all’altra che i locali al di là non potevano essere larghi più di tre metri.

Il deposito ACME incontra le Catacombe di Domitilla, pensò Langdon mentre Anderson consultava la pianta. La minuscola sezione riferita al sotterraneo era contrassegnata dalla " X" che indicava la posizione dell’SBB 13. Langdon non potè fare a meno di notare che la pianta era identica a quella di un mausoleo per quattordici tombe: sette cripte di fronte a sette cripte. Qui ne mancava una, il cui spazio era occupato dalla scala lungo la quale erano appena scesi. Tredici in tutto.

Il simbolo perduto pic_6.jpg

Langdon sospettava che i teorici del complotto del "numero tredici" si sarebbero buttati a pesce sulla notizia che nei recessi del Campidoglio c’erano esattamente tredici ripostigli. Alcuni trovavano sospetto il fatto che nel Gran Sigillo degli Stati Uniti comparissero tredici stelle, tredici frecce, tredici scalini di una piramide, tredici strisce nello scudo, tredici foglie d’ulivo, tredici olive, tredici lettere nella scritta annuit coeptis, tredici lettere in e pluribus unum e così via.

«In effetti sembra tutto abbandonato» osservò Anderson, indirizzando il raggio della torcia nel locale che si apriva direttamente davanti a loro. La massiccia porta di legno era spalancata e il fascio illuminò una stretta stanza di pietra, targa circa tre metri e profonda più o meno nove, simile a un corridoio cieco che non andava da nessuna parte. Conteneva soltanto due vecchie casse di legno sfondate e un po’ di carta da imballo accartocciata.

Anderson spostò la luce della torcia sulla vecchia targa affissa alla porta. Era coperta di verderame, ma la scritta era ancora leggibile:

SBB IV

«SBB 4» disse Anderson.

«Qual è l’SBB 13?» domandò Sato, esalando lievi sbuffi di vapore nell’aria fredda del sotterraneo.

Anderson puntò il raggio verso l’estremità sud del corridoio. «Laggiù.»

Langdon lanciò un’occhiata lungo lo stretto passaggio e rabbrividì. Nonostante il freddo, era coperto da un velo di sudore.

Sfilarono davanti alle stanze e videro che tutte avevano le porte spalancate ed erano abbandonate da moltissimo tempo. Arrivati in fondo, Anderson si voltò a destra e sollevò la torcia per guardare all’interno dell’SBB 13. Ma la luce incontrò l’ostacolo di una pesante porta di legno.

A differenza delle altre, quella dell’SBB 13 era chiusa.

Ma per il resto non c’erano elementi distintivi: cardini massicci, maniglia di ferro e una targa di rame incrostata di verde. I sette caratteri sulla targa erano gli stessi tracciati sulla mano di Peter.

SBB XIII

Per favore, ditemi che è chiusa a chiave, pensò Langdon.

«Provi ad aprire» ordinò Sato senza esitare.

Il capo della sicurezza sembrava a disagio, ma tese comunque una mano, afferrò la pesante maniglia di ferro e premette con forza verso il basso. La maniglia non si mosse. Anderson puntò il fascio di luce e illuminò la massiccia piastra della serratura.

«Provi con la chiave principale» suggerì Sato.

Anderson estrasse la chiave della porta d’ingresso del piano di sopra, che però non corrispondeva neppure lontanamente alla serratura.

«Mi sbaglio o la sicurezza dovrebbe avere accesso a ogni angolo di questo edificio, in caso di emergenza?» domandò Sato in tono sarcastico.

Anderson sospirò e sostenne lo sguardo della donna. «Signora, i miei uomini stanno cercando la chiave giusta, ma…»

«Spari alla serratura» lo interruppe Sato, indicando con un cenno la piastra sotto la maniglia.

[1 battito cardiaco di Langdon accelerò.

Anderson si schiarì la voce, a disagio. «Signora, sto aspettando notizie della chiave. Non sono sicuro che mi piaccia l’idea di aprirci la strada a colpi di…»

«Forse le piacerebbe di più ritrovarsi in prigione per avere ostacolato un’indagine della cia?»

Anderson la guardò incredulo. Dopo un istante, passò con riluttanza la torcia a Sato e aprì la fondina.