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«No» rispose la voce senza alcuna traccia di umorismo. «Questa è la sicurezza informatica della CIA. Ci piacerebbe sapere come mai lei sta tentando di entrare in uno dei nostri database segretati.»

Nel seminterrato del Campidoglio, negli ampi spazi del centro visitatori, l’agente di sicurezza Nunez chiuse a chiave le porte d’ingresso come faceva tutte le sere a quell’ora. Mentre ripercorreva il pavimento di marmo, ripensò all’uomo tatuato con il cappotto militare.

L’ho lasciato entrare io. Nunez si chiese se il giorno dopo avrebbe ancora avuto un lavoro.

Era quasi arrivato alla scala mobile quando dei colpi improvvisi lo fecero voltare. Guardò in direzione dell’ingresso principale e vide all’esterno un anziano afroamericano che picchiava sul vetro con la mano aperta e gli faceva segno di voler entrare.

Nunez scosse la testa, indicando l’orologio che aveva al polso.

L’uomo picchiò di nuovo e si spostò alla luce. Indossava un impeccabile abito blu e i capelli, che andavano ingrigendo, erano cortissimi. Il polso di Nunez accelerò. Merda. Perfino da lontano, Nunez lo riconobbe. Si affrettò verso l’ingresso e aprì la porta. «Mi scusi, signore. Prego, entri pure.»

Warren Bellamy, l’architetto del Campidoglio, varcò la soglia e ringraziò l’agente di sicurezza con un educato cenno del capo. Bellamy era agile e snello, con un portamento eretto e uno sguardo penetrante che comunicavano la disinvoltura di chi ha il totale controllo del proprio ambiente. Erano venticinque anni che Bellamy prestava servizio quale supervisore del Campidoglio degli Stati Uniti.

«Posso esserle utile, signore?» gli chiese Nunez.

«Sì, grazie.» Laureato in un’università Ivy League del Nordest, la sua dizione era così corretta da farlo quasi sembrare un inglese. «Ho appena saputo che qui stasera c’è stato un incidente.» Sembrava estremamente allarmato.

«Sì, signore. È stato…»

«Dov’è Anderson?»

«Di sotto, con il direttore Sato dell’Office of Security della CIA.»

Gli occhi di Bellamy si spalancarono per la preoccupazione. «La CIA è qui?»

«Sì, signore. Sato è arrivata praticamente subito dopo l’incidente.»

«Perché?» domandò Bellamy.

Nunez si strinse nelle spalle. Come se avessi potuto chiederglielo,

Bellamy si avviò a grandi passi verso le scale mobili. «Dove si trovano adesso?»

«Sono appena scesi ai livelli sotterranei.» Nuhez si affrettò dietro l’architetto.

Bellamy si voltò con un’espressione preoccupata. «Nei sotterranei? E perché?»

«Non lo so… L’ho appena sentito via radio.»

L’architetto ora stava camminando più rapidamente. «Mi accompagni subito da loro.»

«Sì, signore.»

Mentre si affrettavano attraverso il grande spazio, Nunez intravide un massiccio anello d’oro al dito di Bellamy.

L’agente prese in mano la radio. «Avverto il capo che lei sta scendendo.»

«No.» Gli occhi dell’architetto lampeggiarono pericolosamente. «Preferisco non essere annunciato.»

Nunez aveva già commesso alcuni gravi errori quella sera, ma non avvertire il responsabile della sicurezza che in quel momento l’architetto si trovava nell’edificio sarebbe stato l’ultimo. «Signore?» cominciò, a disagio. «Io credo che il capo preferirebbe…»

«Lei è consapevole che il signor Anderson è un mio sottoposto?» lo interruppe Bellamy.

Nunez annuì.

«Allora penso che il signor Anderson preferirebbe che lei obbedisse ai miei ordini.»

34

Trish Dunne entrò nell’atrio dell’SMSC e alzò lo sguardo, sorpresa. L’ospite in attesa non aveva niente in comune con i vari dottori in completo di flanella e la faccia da topo di biblioteca che di solito entravano in quell’edificio: dottori in antropologia, oceanografia, geologia e altre discipline scientifiche. Nel suo impeccabile abito su misura, il dottor Abaddon sembrava quasi un aristocratico. Era alto, con il torace ampio, il viso abbronzato e capelli biondi perfettamente pettinati. Trish ebbe l’impressione che fosse abituato più ai lussi che ai laboratori.

«Il dottor Abaddon, immagino» lo salutò tendendo la mano.

L’uomo per un attimo sembrò incerto, ma poi strinse con decisione la mano grassoccia della ragazza. «Sì, mi scusi. E lei è…?»

«Trish Dunne. Sono l’assistente di Katherine Solomon. Mi ha chiesto di scortarla al laboratorio.»

«Oh, capisco.» Il dottor Abaddon ora stava sorridendo. «Lieto di conoscerla, Trish. Mi scuso se le sono sembrato confuso, ma mi era parso di capire che questa sera Katherine sarebbe stata da sola.» Indicò con un gesto il corridoio. «Comunque, sono tutto suo. Mi faccia pure strada.»

Nonostante il tempestivo recupero da parte dell’ospite, Trish aveva notato nei suoi occhi un lampo di disappunto. Adesso aveva qualche sospetto sui motivi della riservatezza di Katherine a proposito del dottor Abaddon. Che stia sbocciando una storia d’amore? Katherine non parlava mai della sua vita privata, ma il visitatore di quella sera era un uomo attraente e curato e, anche se più giovane di lei, chiaramente proveniva dal suo stesso mondo di ricchezze e privilegi. In ogni caso, qualunque sviluppo il dottor Abaddon avesse immaginato per quell’appuntamento, la presenza di Trish non sembrava rientrare nei suoi piani.

Alla guardiola della sicurezza nell’atrio, un solitario sorvegliante si tolse velocemente gli auricolari. Trish sentì gli echi della partita dei Redskins. La guardia sottopose il dottor Abaddon alla solita routine riservata ai visitatori, fatta di metal detector e badge temporanei.

«Chi sta vincendo?» domandò affabilmente il dottor Abaddon mentre estraeva dalle tasche un cellulare, un mazzo di chiavi e un accendino.

«Gli Skins sono avanti di tre» rispose la guardia, che sembrava ansiosa di rimettersi all’ascolto. «Un accidenti di partita.»

«Tra non molto arriverà anche il signor Solomon» lo avvisò Trish. «Per favore, appena lo vede vuole dirgli di raggiungerci in laboratorio?»

«Certo.» L’uomo strizzò l’occhio alla ragazza mentre gli passava davanti con l’ospite. «E grazie per l’avvertimento: avrò un’aria molto indaffarata.»

Trish aveva pronunciato quella frase non solo a beneficio della guardia, ma anche per ricordare al dottor Abaddon che lei non era l’unica intrusa nella sua serata privata con Katherine.

«Allora, come mai conosce Katherine?» domandò alzando gli occhi sul misterioso ospite.

«Oh, è una lunga storia.» Il dottor Abaddon ridacchiò. «Stiamo lavorando insieme a una cosa.»

Capito, pensò Trish. Non sono affari miei.

«Questa struttura è davvero stupefacente» osservò Abaddon guardandosi intorno mentre percorrevano l’atrio. «Non ero mai stato qui.»

A ogni passo il tono leggero dell’uomo si faceva sempre più cordiale e socievole. Trish notò che l’ospite stava cercando di osservare e assimilare tutto. Alla luce vivida dell’atrio notò anche che il viso di Abaddon sembrava avere un’abbronzatura fasulla. Strano. Ciò nonostante, mentre percorrevano i corridoi deserti, Trish gli fornì un resoconto generale degli scopi e della funzione dell’SMSC, compresi i vari moduli e i relativi contenuti.

Abaddon parve colpito. «Sembra proprio che in questo posto ci sia un tesoro inestimabile di manufatti. Mi sarei aspettato guardie dappertutto.»

«Non ce n’è bisogno.» Trish indicò la fila di lenti a occhio di pesce allineate sul soffitto. «Qui la sicurezza è automatizzata. Ogni centimetro di questo corridoio, che è la spina dorsale dell’intera struttura, viene sorvegliato ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Ed è impossibile accedere alle stanze che si aprono su questo corridoio senza una chiave magnetica e relativo codice identificativo.»

«Un uso efficiente delle telecamere.»

«Toccando ferro, non abbiamo mai subito un solo furto. E anche vero che il nostro non è il tipo di museo in cui qualcuno vorrebbe rubare. Non è che nei mercati clandestini ci sia molta richiesta di fiori estinti, kayak eschimesi o di una carcassa di calamaro gigante.»