Su di esso vide che avevano sparso della polvere, delle terre colorate che formavano una specie di disegno, di immagine. Seguendo i contorni tra i colori, distinse una figura chiara e allungata, tipo una mano, o un ramo, e una larga curva di terra rossa.

Dopo averle salutate, non disse nient'altro, se ne stette semplicemente lì chinato. Nel frattempo le donne erano tornate alla loro occupazione, sussurrandosi qualcosa tra di loro di tanto in tanto.

Quando smisero di lavorare chiese, «È sacro?»

Le anziane lo guardarono, aggrottarono la fronte e tacquero.

«Non lo puoi vedere,» disse la più scura delle due giovani con un subitaneo sorriso canzonatorio che colse Havzhiva di sorpresa.

«Intendi dire che non dovrei essere qui?»

«No, puoi stare qui, ma non lo puoi vedere.»

Lui si alzò per osservare dall'alto la pittura di terra che avevano formato con polvere grigia, bruna, rossa e ruggine. Le linee e le forme avevano una proporzione definita, schematica ma inafferrabile.

«Non è tutto qui,» disse lui.

«È soltanto una parte, una piccola parte,» rispose la donna scherzosa, gli occhi scuri scintillanti di ironia nel viso scuro.

«Non è mai tutto insieme?»

«No,» disse lei. «No,» dissero le altre, e tutte sorrisero, anche le vecchie.

«Mi potete dire cosa rappresenta il quadro?»

Lei non conosceva la parola "quadro". Scambiò occhiate con le altre, rifletté, poi lo guardò furbescamente.

«Facciamo quello che sappiamo, qui,» disse, con lieve cenno verso il disegno dai toni tenui. La tiepida brezza della sera stava già dissolvendo i contorni dei colori.

«Loro non lo sanno,» disse l'altra giovane dalla pelle di cenere, in un bisbiglio.

«Gli uomini? Non l'hanno mai visto per intero?»

«No. Nessuno. Solo noi. Lo abbiamo qui.» La donna bruna si toccò non la testa ma il cuore, coprendo i seni con le lunghe mani indurite dal lavoro. Sorrise di nuovo.

Le anziane si alzarono, borbottarono qualcosa fra loro, una si rivolse alle giovani con una frase che Havzhiva non capì, poi se ne andarono con passo pesante.

«Non approvano che tu parli di quest'opera con un uomo,» disse Havzhiva.

«Un uomo di città,» precisò la donna scura, e rise. «Pensano che vogliamo fuggire.»

«Vorresti fuggire?»

Lei si strinse nelle spalle. «E dove?» disse.

Si alzò in piedi con mossa aggraziata per osservare il disegno di terra, un astratto schema di linee e colori, curve e superfici dall'apparenza casuale.

«Tu riesci a scorgerlo?» chiese a Havzhiva, con quel suo lampo negli occhi, ironico, liquido.

«Forse un giorno potrei imparare a farlo,» disse lui, incrociando il suo sguardo.

«Dovresti trovare una donna che t'insegni,» disse la donna color della cenere.

«Siamo un popolo libero, ora,» affermò il Giovane Capo, il Figlio ed Erede, l'Eletto.

«Devo ancora conoscere un popolo libero,» osservò Havzhiva, cortese e ambiguo.

«La nostra libertà l'abbiamo conquistata. Abbiamo fatto di noi stessi degli uomini liberi. Con coraggio, con sacrificio, con tenace attaccamento a questo sommo valore. Siamo un popolo libero.» L'Eletto era un uomo sui quarant'anni dai lineamenti marcati, bello, intelligente. Sei cicatrici gli correvano rilevate lungo le braccia, quasi un ruvido mantello, e un occhio blu spalancato guatava immobile tra i suoi occhi.

«Siete uomini liberi,» disse Havzhiva.

Ci fu un momento di silenzio.

«Gli uomini di città non capiscono le nostre donne,» disse l'Eletto. «Le nostre donne non vogliono la libertà come gli uomini. Non fa per loro. Una donna è attaccata al suo bambino. Questo è per lei il valore supremo. È così che il nostro signore Kamye ha creato la donna, e Tual la Misericordiosa ne è l'esempio. In altri luoghi può essere diverso. Può esserci un altro tipo di donna, che non si cura dei propri figli. Può essere. Qui è come ti ho detto.»

Havzhiva accennò di sì, con un solo cenno profondo del capo, come aveva appreso dagli Yeowiani, quasi un inchino. «Così è,» disse.

L'Eletto fece un'aria soddisfatta.

«Ho visto un'immagine,» continuò Havzhiva.

L'Eletto rimase impassibile, forse non conosceva quella parola. «Linee e colori formati con terra sulla terra possono contenere una porzione di sapere. Ogni sapere è particolare, ogni verità è parziale,» disse Havzhiva imitando di proposito la semplice gravità del linguaggio quotidiano con cui sua madre, l'Erede del Sole, si rivolgeva ai mercanti stranieri. «Nessuna verità può rendere non vera un'altra verità. Ogni conoscenza è parte della conoscenza totale. Un'autentica linea, un colore autentico. Una volta che hai visto lo schema più ampio, non puoi tornare a vedere la parte come il tutto.»

L'Eletto rimase immobile come un macigno di pietra grigia. Dopo un po' disse, «Se noi vivessimo come si vive nelle città, tutto quel che sappiamo andrebbe perduto». Sotto il tono dogmatico s'intuivano paura e dolore.

«O Eletto!» disse Havzhiva. «Tu dici il vero. Molto andrebbe perduto. Lo so. La conoscenza minore dev'essere appresa per poter arrivare a quella superiore. E non una sola volta.»

«Gli uomini di questa tribù non rinnegheranno la nostra verità,» disse l'Eletto. Il suo occhio centrale cieco e immobile era fisso sul sole, avvolto in una bruma giallastra al di sopra dei campi sconfinati, mentre gli occhi scuri erano rivolti in basso, verso la terra.

Il suo ospite distolse lo sguardo da quel viso straniero verso il piccolo sole, ardente e biancastro, che gettava gli ultimi bagliori su quella terra straniera. «Ne sono convinto,» disse.

All'età di cinquantacinque anni, il Conestabile Yehederhed Havzhiva tornò in visita a Yotebber. Non ci era più passato da molto tempo. Il suo incarico di Consulente Ecumenico presso il Ministero per la Giustizia Sociale di Yeowa lo aveva trattenuto su al Nord, con frequenti viaggi sull'altro emisfero. Aveva vissuto per anni nella Vecchia Capitale insieme alla sua compagna, ma spesso si recava in visita alla Nuova Capitale su richiesta di un nuovo ambasciatore che voleva trarre profitto dalla sua esperienza. La sua compagna (vivevano insieme da diciotto anni, ma non esisteva matrimonio su Yeowa) stava cercando di terminare la stesura di un libro, e gli fece capire che avrebbe desiderato l'appartamento tutto per sé per un paio di settimane per poter scrivere. «Perché non fai quel viaggio a Sud che vagheggi da tanto?» gli disse. «Io verrò laggiù appena avrò finito. Non dirò a nessuno di questi maledetti politicanti dove ti trovi. Dài, su, scappa! Vai, vai!»

Andò. Non gli era mai piaciuto volare, per quanto fosse stato costretto a farlo spessissimo, così intraprese il lungo viaggio in treno. Erano treni funzionali e veloci, terribilmente affollati, con gente che sciamava e si precipitava su a ogni stazione, offrendo compensi ai conducenti, ma senza cercare di salire sul tetto delle carrozze, non quando si viaggia a centotrenta chilometri orari. Aveva il suo scompartimento privato in una carrozza diretta a Città di Yotebber. Passò le lunghe ore in silenzio, guardando scorrere il paesaggio, i progetti di bonifica, le vecchie terre incolte, le foreste recenti, le città gremite, chilometri e chilometri di catapecchie e capanne, casette di legno, case e palazzi di appartamenti, sparsi agglomerati urbani nello stile di Werel con le case a schiera, giardini sul retro e capanni da lavoro, fabbriche, imponenti nuovi impianti, poi all'improvviso di nuovo la campagna, canali e bacini di irrigazione che riflettevano i colori del cielo della sera, un ragazzo a gambe nude che attraversava con un grosso bue bianco un campo di grano all'imbrunire. Le notti erano brevi, nell'oscura dolcezza cullante del sonno.

Il terzo pomeriggio scese dal treno alla stazione di Città di Yotebber. Niente folla. Niente capi. Niente guardie del corpo. Percorse le calde strade familiari, di là dal mercato, attraverso il parco. Una piccola bravata, quella. I malintenzionati, isolati e in bande, erano ancora in circolazione. Tenne gli occhi bene aperti, e i piedi sui percorsi più battuti. Arrivò dinanzi l'antico tempio tualita. Aveva raccolto un fiore bianco che era caduto da un cespuglio nel parco. Lo collocò ai piedi della Madre. Lei gli sorrise, guardandosi con occhi strabici il naso mancante. Proseguì verso il grande complesso, nuovo e tentacolare, dove viveva Yeron.