Io parlo di uomini, donne, bambini, ma dovete tenere presente che non eravamo chiamati uomini, donne, bambini. Soltanto i padroni si chiamavano così. Noi proprietà eravamo chiamati schiavo, schiava, e giovane o cucciolo. Userò questi termini, anche se non li ho più uditi né pronunciati da molti anni, e mai una sola volta in questo mondo benedetto.

La parte del complesso dove stavano gli schiavi, il lato del cancello, era sorvegliato dai Boss, che erano maschi, alcuni dei quali imparentati con la famiglia Shomeke, altri invece assunti. All'interno stavano le schiave e i piccoli. Qui c'erano due castrati, che erano Boss solo di nome, mentre in pratica erano le nonne a comandare. In effetti niente poteva accadere nell'insediamento all'insaputa delle nonne.

Se le nonne dicevano che qualcuno era troppo malato per lavorare, i Boss lo lasciavano a casa. Qualche volta le nonne riuscivano a impedire che uno schiavo fosse venduto, o che una ragazza subisse l'accoppiamento con più di un uomo, oppure potevano fornire un contraccettivo a una ragazza troppo gracile. Tutti nel recinto seguivano i consigli delle nonne. Ma quando qualcuna di loro si spingeva troppo oltre, i Boss potevano frustarla, accecarla, o tagliarle le mani. Quando ero bambina viveva nel nostro recinto una donna che chiamavamo Bisnonna, con due buchi al posto degli occhi e senza la lingua. Credevo che fosse ridotta così per via della vecchiaia. Avevo paura che la lingua di mia nonna Dosse le si seccasse in bocca. Quando glielo dissi, lei rispose, «No. Non si seccherà perché non l'ho mai allungata troppo».

Io vivevo nel recinto. Mia madre mi aveva partorito lì, era stata autorizzata a restarci tre mesi per allattarmi, poi fui svezzata con latte di mucca, e mia madre tornò alla Casa. Si chiamava Shomeke Rayowa Yowa. Era di pelle chiara come la maggioranza degli schiavi, ma molto bella, con polsi e caviglie sottili e lineamenti delicati. Anche mia nonna era di pelle chiara. Io invece ero scura, più scura di chiunque nel complesso. Quando mia madre veniva in visita, i castrati la lasciavano entrare attraverso la botola con scala a pioli. Una volta mi trovò intenta a strofinarmi il corpo di polvere grigia. Quando mi sgridò, le spiegai che volevo somigliare agli altri.

«Ascolta, Rakam,» mi disse, «loro sono gente della polvere. Non usciranno mai dalla polvere. Tu sei qualcosa di meglio. E diventerai bella. Lo sai perché sei così nera?» Non avevo idea di cosa intendesse dire. «Un giorno ti dirò chi è tuo padre,» mi disse, col tono di chi ti promette un regalo. Io avevo spiato lo stallone degli Shomeke, un animale di razza e di valore, quando montava le giumente di altre tenute. Non sapevo che un padre potesse essere umano.

Quella sera mi vantai con la nonna, «Io sono bella, perché mio padre è lo stallone nero!» Dosse mi colpì alla testa con tanta forza da farmi cadere a terra piangente, e mi ingiunse, «Non parlare mai più di tuo padre».

Sapevo che c'era dell'astio fra mia madre e mia nonna, ma trascorse molto tempo prima che capissi perché. Ancora adesso non sono ben sicura di aver compreso a fondo quel che c'era tra loro.

Noi cuccioli correvamo in giro per il complesso. Non conoscevamo niente al di fuori delle mura. Il mondo era costituito dalle capanne delle schiave e dalle case comuni degli schiavi, dalle cucine e dagli orti, dalla nuda piazza indurita dal calpestìo dei piedi nudi. Le mura di cinta mi sembravano molto lontane.

Quando i braccianti dei campi e degli opifici uscivano dal cancello di primo mattino, io non sapevo dove andassero. Erano semplicemente usciti. Per tutto il giorno l'intero recinto apparteneva a noi cuccioli, nudi in estate, quasi nudi anche d'inverno, che correvamo in giro giocando con bastoni, sassi e fango, tenendoci lontani dalle nonne finché non andavamo a supplicarle di darci qualcosa da mangiare, oppure ci mettevano al lavoro per un po' a ripulire gli orti dalle erbacce.

Nel tardo pomeriggio o al calar della sera i lavoratori tornavano, passando attraverso il cancello sotto il controllo dei Boss. Alcuni erano distrutti dalla fatica e di cattivo umore, altri erano allegri, chiacchieravano e si scambiavano battute. Il grande cancello veniva chiuso con fragore dietro l'ultimo della fila. Il fumo usciva dai focolari dove si cucinava. L'odore di sterco di vacca che bruciava era piacevole. La gente si riuniva sotto le tettoie delie case comuni. Schiavi e schiave indugiavano lungo il fosso che divideva il lato del cancello dalla parte interna, parlandosi da una sponda all'altra. Dopo mangiato, i castrati officiavano riti alla statua di Tua), e noi innalzavamo le nostre preghiere a Kamye, poi tutti andavano a letto, tranne quelli che indugiavano per "saltare il fosso". Qualche sera d'estate c'erano dei canti, oppure ci era permesso di ballare. Durante l'inverno qualcuno dei nonni, dei poveri vecchi malridotti, mica forti come le nonne, si metteva a "cantare il Verbo". È così che chiamavamo la recita dell'Arkamye. Sempre, tutte le sere, qualcuno insegnava e qualcun altro imparava i sacri versi. Nelle sere d'inverno uno di quei vecchi schiavi malconci, tenuti in vita dalla pietà delle nonne, si metteva a cantare il Verbo. Allora anche i cuccioli stavano fermi e buoni ad ascoltare la storia.

La mia amica più cara era Walsu. Era più robusta di me, e mi difendeva quando c'erano zuffe e litigi fra i più piccoli, o quando qualcuno dei più grandicelli mi chiamava "Nerina" o "Capetta". Ero piccola, ma di temperamento ardito. Quand'eravamo insieme, Walsu e io non venivamo mai tormentate a lungo. Poi Walsu fu mandata fuori dal cancello. Sua madre era stata ingravidata, era molto grossa e aveva bisogno di aiuto nei campi per raggiungere la quota di raccolto dovuta. Il gede dev'essere raccolto a mano. Ogni giorno, appena un nuovo settore di piante cariche arrivava a maturazione, doveva essere raccolto. Così i raccoglitori di gede andavano su e giù per lo stesso campo per venti o trenta giorni, per poi spostarsi su una coltura più tarda. Walsu seguiva sua madre per aiutarla a raccogliere dai suoi filari. Quando sua madre cadde malata, Walsu prese il suo posto e, con l'aiuto degli altri, riuscì a mantenere la quota della madre. Aveva sei anni, secondo il modo di contare dei padroni, che attribuivano a tutti gli schiavi la stessa data di nascita, cioè il primo giorno dell'anno, all'inizio della primavera. Di fatto, poteva averne anche sette. Sua madre stette male sia prima che dopo il parto, e per tutto il tempo Walsu la sostituì nei campi di gede. Dopodiché non tornò più a giocare, ma solo la sera a mangiare e a dormire. Era allora che la vedevo e che potevamo parlare. Era fiera del suo lavoro. Io la invidiavo, e non vedevo l'ora di varcare anch'io il cancello. La seguivo fin lì, e da lì guardavo il mondo di fuori. Le mura del complesso cominciavano ad andarmi molto strette. Dissi a mia nonna Dosse che volevo andare a lavorare nei campi.

«Sei troppo piccola.»

«Compirò sette anni il primo dell'anno.» «Tua madre mi ha fatto promettere che non ti avrei mandato fuori.»

La volta seguente che mia madre venne in visita al recinto le dissi, «La nonna non mi vuol far uscire. Io voglio andare a lavorare con Walsu».

«Mai!» rispose mia madre. «Sei venuta al mondo per qualcosa di meglio.»

«Che cosa?»

«Vedrai!»

Mi sorrise. Sapevo che intendeva dire la Casa, dove lavorava lei. Mi aveva parlato spesso delle meraviglie della Casa, di oggetti brillanti e dai vivaci colori, cose fini e delicate, cose pulite. C'era quiete nella Casa, diceva. Mia madre indossava un bel foulard rosso, parlava a bassa voce, e i suoi abiti e la sua figura erano sempre freschi e puliti.

«Quando lo potrò vedere?» la tormentai, finché disse, «Va bene! Chiederò alla mia signora».

«Che cosa le chiederai?»

Della "mia signora" sapevo soltanto che anche lei era delicata e pulita, e che mia madre le apparteneva in una maniera particolare, di cui andava molto orgogliosa. Sapevo che era la "mia signora" che aveva regalato a mia madre il foulard rosso.