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Cazaril accantonò quelle minacce con un gesto d’impazienza. D’altronde non si era mai illuso che dy Jironal non avesse una spia in seno ai consigli dell’Ordine. «Stamattina, mio signore, avete problemi ben più gravi di quelli che io potrei causarvi», ribatté.

L’altro dilatò appena gli occhi in un’espressione sorpresa, inclinando il capo con aria improvvisamente attenta.

«Che aspetto aveva la ferita di Teidez, l’ultima volta che l’avete vista?» domandò Cazaril.

«Quale ferita? Lui non mi ha mostrato nessuna ferita.»

«È sulla gamba destra… Il leopardo di Orico lo ha graffiato prima che lui lo uccidesse. I graffi non sembravano profondi, ma adesso si sono infettati e lui brucia di febbre. Avete presente il modo in cui una ferita infetta genera striature rosse sulla pelle?»

«Sì», annuì dy Jironal, sempre più a disagio.

«Quelle di Teidez vanno dalla caviglia all’inguine, e sono rosse come il fuoco.»

Dy Jironal si lasciò sfuggire una violenta imprecazione.

«Il mio consiglio è richiamare la schiera di medici che si stanno inutilmente occupando di Orico e inviarla nelle camere di Teidez… Altrimenti potreste perdere due delle vostre regali marionette in un’unica settimana.»

Dy Jironal gli scoccò un’occhiata torva, ma, dopo aver tratto un profondo respiro, si limitò ad annuire, staccandosi dalla scrivania e uscendo subito dalla stanza, seguito da Cazaril. Per quanto corrotto dall’avidità e dall’orgoglio familiare, dy Jironal non era certo un incompetente, e Cazaril non faticava a comprendere perché Orico avesse tollerato tante cose, pur di avere un braccio destro così abile.

Dopo essersi accertato che dy Jironal stesse salendo il più in fretta possibile le scale che portavano alle camere del Roya, Cazaril decise di andare a controllare di nuovo le condizioni di Umegat, dato che non aveva più avuto notizie dal Tempio dalla sera precedente. Con sua sorpresa, però, nell’oltrepassare il portone dello Zangre, passando accanto al nefasto cortile delle stalle, notò il piccolo stalliere privo della lingua che stava risalendo la collina; quando lo vide, l’ometto prese ad agitare le mani prive dei pollici e accelerò il passo, arrivando fino a lui ansimando, ma col sorriso sulle labbra. Il suo volto, soprattutto intorno a un occhio, era segnato da scuri lividi, conseguenza della vana lotta a difesa del serraglio, il naso rotto era ancora gonfio e lacerato, però i suoi occhi scintillavano di gioia.

«Hai l’aria felice», osservò Cazaril. «Umegat si è forse svegliato?»

L’ometto annuì vigorosamente, e lui si concesse un sorriso di sollievo.

Lo stalliere borbottò poi una serie di parole indistinte e gorgoglianti; pur riuscendo a comprenderne una su quattro, Cazaril dedusse che l’ometto aveva un compito urgente da assolvere. Segnalandogli di aspettarlo, lo stalliere entrò nel serraglio silenzioso e buio, uscendone qualche minuto più tardi con un sacchetto legato alla cintura e agitando allegramente un libro. Cazaril comprese allora che Umegat non si era soltanto svegliato, ma si sentiva anche abbastanza bene da desiderare il suo libro preferito… Il quintuplice sentiero dell’anima, notò, perplesso.

Lieto di avere la compagnia dell’ometto, Cazaril si avviò con lui verso la città e, lungo il tragitto, si sorprese a riflettere sui segni di martirio che quell’uomo esibiva con tanta indifferenza, benché fossero le silenziose testimonianze di una tortura orribile, subita nel nome del suo Dio. La sua sofferenza e il suo terrore erano durati un’ora, un giorno oppure mesi? E quel suo aspetto vagamente grassoccio dipendeva dalla castrazione o era soltanto una conseguenza dell’età avanzata? Naturalmente, Cazaril non poteva chiedere allo stalliere di narrargli la sua storia, considerato che già gli riusciva difficile decifrare le poche parole che scambiava con lui. A pensarci bene, non sapeva neppure se fosse originario di Chalion, di Ibra o di Brajar oppure se fosse un roknari, né aveva idea di come fosse giunto a Cardegoss o del tempo da lui trascorso al servizio di Umegat. Osservando lo stalliere, che stava camminando con passo spedito, il libro stretto sotto il braccio e una luce intensa nello sguardo, Cazaril si convinse comunque che quello era l’aspetto che avevano i fedeli, eroici e amati servitori degli Dei.

Trovarono Umegat seduto sul letto, appoggiato ai cuscini, pallido in volto e col cuoio capelluto sollevato lungo la sutura. Aveva i capelli arruffati, le labbra screpolate e le guance non rasate. Frugando nel sacco, lo stalliere tirò fuori il necessario per radersi e lo agitò davanti a Umegat, che fece un pallido sorriso. Poi il roknari guardò Cazaril, si sfregò gli occhi e mise a fuoco lo sguardo con aria incerta.

«Come ti senti?» domandò Cazaril, deglutendo a fatica.

«Mi fa male la testa», rispose Umegat. E, dopo un momento, chiese: «Le mie splendide creature sono tutte morte?» La voce suonò bassa e un po’ impastata, la lingua parve intorpidita, però lui sembrava lucido.

«Quasi tutte. Un uccellino giallo e azzurro è riuscito a salvarsi e adesso è di nuovo al sicuro nella sua gabbia. Non ho permesso a nessuno di tenere trofei e li ho fatti cremare tutti, come soldati caduti. Ieri, l’Arcidivino Mendenal si è incaricato di trovare alle loro ceneri un luogo d’onore ove possano riposare.»

Umegat annuì, poi sussultò e serrò le labbra screpolate.

Cazaril lanciò un’occhiata di sottecchi all’ometto, pensando che di certo sapeva la verità, poi riportò lo sguardo su Umegat. «Sai che hai smesso di risplendere?»

«Lo… sospettavo», ammise Umegat. «Se non altro, adesso faccio meno fatica a guardare te.»

«La seconda vista ti è stata tolta?»

«La seconda vista ormai è superflua, per me… Sono vivo, dunque è evidente che la mano della Signora continua a sorreggermi», ribatté Umegat. «Ho sempre saputo che essa mi era stata concessa soltanto per un certo periodo… Finché è durata, è stata un’esperienza interessante. Davvero interessante», ripeté, con la voce ridotta a un sussurro, poi distolse il volto e aggiunse: «Avrei tollerato che mi venisse tolta come mi era stata data, ma vedermela strappare in questo modo… Dovevo immaginare che sarebbe successa una cosa del genere».

Gli Dei avrebbero dovuto avvertirti… pensò Cazaril.

Il piccolo stalliere, che aveva colto la nota dolorosa nella voce di Umegat, prese il libro e lo offrì al roknari a mo’ di consolazione.

Umegat, quasi intenerito, lo prese e commentò: «Se non altro, ho la mia vecchia professione su cui ripiegare, giusto?» Poi aprì il volume e abbassò lo sguardo su di esso. Un momento più tardi, però, il suo sorriso svanì. «Che razza di scherzo è questo?» chiese con voce tagliente.

«Di quale scherzo parli, Umegat? Quello è il tuo libro. Io stesso ho visto che lo andava a prendere nel serraglio…» garantì Cazaril.

«Che lingua è questa?» insistette Umegat, lottando per sollevarsi a sedere.

«Ibrano, naturalmente», rispose Cazaril, lanciando un’occhiata sulla pagina da sopra la sua spalla.

Umegat prese a sfogliare il libro con dita tremanti, lo sguardo che si spostava a scatti sulle righe e il respiro che accelerava. Sembrava atterrito «Sono… segni senza senso, semplici chiazze d’inchiostro. Cazaril!» gemette.

«È ibrano, Umegat, puro e semplice ibrano.»

«Si tratta dei miei occhi, di qualcosa dentro di me…» mormorò il roknari, serrandosi il volto e sfregandosi gli occhi, poi d’un tratto scoppiò in singhiozzi. «Oh, Dei, sono stato punito!»

«Presto, chiama il medico!» ingiunse Cazaril allo spaventato stalliere, che annuì e si affrettò a uscire.

Rimasto solo, Cazaril cercò con mosse impacciate di aiutare Umegat, battendogli un colpetto sulla spalla, assestando le pagine del libro, che lui stava quasi strappando nella stretta convulsa delle proprie dita, e finendo poi per togliergli di mano il volume. Le difese di Umegat, che avevano resistito fino a quel momento, crollarono e la crisi si manifestò in tutta la sua violenza. Sconfitto, il roknari si abbandonò, tremante, a singhiozzi convulsi.