Quella sera, prima di andare a dormire, Cazaril s’inginocchiò accanto al letto e pregò che gli venisse risparmiato l’incubo che lo aveva tormentato per tre notti di fila e cioè Dondo che cresceva nel suo ventre fino a raggiungere dimensioni normali e si apriva un varco a colpi di spada, vestito con gli indumenti indossati durante il rito funebre. Forse la Signora diede ascolto alla sua supplica… Cazaril si svegliò all’alba, con la testa e il cuore che pulsavano per un nuovo incubo, nel quale Dondo aveva risucchiato la sua anima al posto della propria e si era impadronito del suo corpo, scatenando poi la propria bramosia nell’alloggio delle dame, mentre lui era costretto ad assistere, impotente. Con sgomento, mentre giaceva ansimante nella luce grigia dell’alba, lottando per ritrovare la presa sulla realtà, Cazaril si rese conto che il suo corpo era in uno stato d’intensa eccitazione.
Ma Dondo era davvero sigillato in una prigione buia, isolato dal mondo e dalle sensazioni, oppure stava viaggiando dentro di lui, trasformandosi di volta in volta in una spia e un guardone? Da quando si era posto quella domanda, Cazaril si era convinto che non avrebbe più amato una dama. Adesso, immaginando quello spettrale rapporto a quattro, col demone e con Dondo come ospiti nascosti e sgraditi, fu percorso da un brivido. Gli venne in mente che poteva sfuggire a quella situazione gettandosi dalla finestra, insinuando le spalle nella stretta apertura e lanciandosi nel vuoto verso una rapida fine. Oppure poteva tagliarsi i polsi o la gola, squarciarsi il ventre. E perché non tutte e tre le cose?
Si sollevò a sedere di scatto, sbattendo le palpebre, e scoprì che una mezza dozzina di spettri gli si era raccolta intorno. Avevano un’aria smaniosa, con le forme indistinte che si accalcavano come avvoltoi intorno alla carcassa di un cavallo. Con un sibilo, scattò in avanti e agitò il braccio per sparpagliare quelle presenze, chiedendosi però se una di esse potesse rianimare un corpo la cui testa era stata fracassata. Stando all’Arcidivino, una cosa del genere era possibilissima, il che significava che quelle spettrali sentinelle sbarravano la via di fuga offerta dal suicidio. Spaventato all’idea di riprendere sonno, Cazaril si alzò dal letto e, con mosse incespicanti, provvide a lavarsi e a vestirsi.
Di lì a poco, rientrando da una frugale colazione, venne raggiunto sulle scale da un’affannata Nan dy Vrit, che gli disse: «La mia signora vi prega di raggiungerla immediatamente».
Annuendo, Cazaril riprese a salire, ma, quando accennò a oltrepassare il terzo piano, Nan lo richiamò. «Non nelle sue camere… In quelle del Royse Teidez.»
«Oh», commentò lui, inarcando le sopracciglia, poi svoltò nel corridoio e oltrepassò la propria stanza per raggiungere, tallonato da Nan, l’appartamento di Teidez. Al suo ingresso nell’anticamera-studio, identica a quella delle camere di Iselle, al piano superiore, sentì subito alcune voci provenire dalle stanze interne, quella di Iselle sommessa e quella di Teidez alta e irosa.
«Non voglio niente da mangiare, e non voglio vedere nessuno! Vattene!»
Il salotto era ingombro di un assortimento di armi, abiti e doni; avanzando a fatica in mezzo a quella confusione, Cazaril raggiunse la camera di Teidez. Il giovane era a letto, ancora in camicia da notte. L’aria afosa e umida della stanza sapeva di sudore giovanile, misto a un altro sentore aspro meno identificabile; il segretario-tutore di Teidez stava a lato del letto, con aria ansiosa, e Iselle era sull’altro lato, con le mani piantate sui i fianchi.
«Voglio rimettermi a dormire, andatevene», stava protestando Teidez, preso tra due fuochi. Nel sollevare lo sguardo, si accorse di Cazaril e sussultò, puntando un dito verso di lui ed esclamando: «Soprattutto, non voglio vedere lui qui!»
«Adesso smettetela con questi capricci, giovane signore», intervenne Nan dy Vrit, secca e pragmatica. «Sapete benissimo che non dovete parlare in questo modo alla vecchia Nan.»
Un po’ intimidito, Teidez mutò di colpo atteggiamento. «Mi fa male la testa», gemette.
«Nan, porta una luce», ordinò Iselle. «Cazaril, voglio che diate un’occhiata alla gamba di Teidez, che a me pare molto strana.»
Nan sollevò un candelabro con due candele per rafforzare la pallida luce diurna che entrava dalla finestra; Teidez si strinse le coperte contro il petto, ma non osò opporsi alla sorella maggiore che, trapassandolo con lo sguardo, gli strappò di mano le coltri e le ripiegò.
Tre solchi paralleli, coperti da una crosta, descrivevano una spirale lungo la gamba destra del ragazzo; di per sé, le ferite non apparivano profonde o pericolose, ma la carne intorno a esse era talmente gonfia che la pelle risultava lucida e semitrasparente; dai tagli, poi, filtravano pus e un siero rosato. Sgomento, Cazaril si costrinse a rimanere impassibile mentre osservava le striature rosse che salivano oltre il ginocchio del ragazzo, verso l’interno della coscia, notando nel contempo che Teidez aveva gli occhi troppo lucidi e un po’ vitrei.
«Non mi toccate!» strillò il ragazzo, ritraendo di scatto la testa, quando Cazaril protese una mano verso di lui.
«State fermo», gli ingiunse però lui, con voce bassa e decisa, accostando il polso alla fronte di Teidez: era rovente. «Da quanto tempo ha la febbre?» chiese, sollevando lo sguardo sul segretario-tutore, che stava osservando la scena con aria preoccupata.
«Solo da stamattina, credo.»
«Quand’è stata l’ultima volta che un medico gli ha controllato la gamba?»
«Non ha voluto vedere un medico, Lord Cazaril. Io ho cercato di aiutarlo, ma mi ha scagliato contro una sedia e si è bendato da sé.»
«E voi glielo avete permesso?» ringhiò Cazaril, strappando un sussulto a quell’ometto pallido.
«Ho obbedito ai suoi ordini», si schermì il segretario, scrollando le spalle con crescente disagio.
«Alcune persone mi obbediscono», borbottò Teidez. «E saprò ricordarmi di loro.» Poi scoccò un’occhiata di fuoco a Cazaril e indirizzò una smorfia alla sorella.
«È insorta un’infezione», disse il Castillar. «Provvederò perché dal Tempio gli mandino subito un medico.»
Contrariato, Teidez strisciò di nuovo sotto le coperte. «Adesso posso tornare a dormire?» piagnucolò. «Sempre che non vi dispiaccia… e tirate le tende, perché la luce mi fa dolere gli occhi.»
«Sì, rimanete a letto», ribatté Cazaril, lasciando la stanza.
Iselle lo seguì nell’anticamera. «Non è in buone condizioni, vero?» chiese a bassa voce.
«No, non lo è, Royesse», confermò Cazaril. «Siete un’attenta osservatrice, e la vostra valutazione si è rivelata esatta.» Inchinatosi in risposta a un cenno di assenso di Iselle, si diresse verso le scale; nel passare accanto a Nan dy Vrit, notò la sua espressione ombrosa e ne dedusse che almeno lei era consapevole dell’effettiva gravità della situazione. In fretta, scese le scale e attraversò il cortile, diretto alla Torre di Ias. Riusciva a pensare soltanto ai pochissimi casi in cui gli era capitato di vedere un uomo — anche giovane e in forze — sopravvivere a un’amputazione della gamba all’altezza della coscia.
Per pura fortuna, rintracciò immediatamente dy Jironal, che si trovava nella Cancelleria, impegnato a sigillare una borsa di dispacci e a consegnarla a un corriere.
«Come sono le strade?» chiese il Cancelliere al corriere, un individuo snello e muscoloso che indossava il tabarro della Cancelleria sopra un assortimento d’indumenti di lana.
«Fangose, mio signore. Cavalcare col buio potrebbe essere rischioso.»
«Fa’ del tuo meglio», sospirò dy Jironal, assestando una pacca sulla spalla del corriere, che salutò e uscì, passando accanto a Cazaril.
«Cazaril», lo salutò dy Jironal, fissandolo con espressione accigliata.
«Mio signore», rispose l’altro, con un accenno d’inchino, entrando nella stanza.
«Sapete, il vostro tentativo di nascondervi dietro l’Ordine della Figlia, nel suo complotto per spodestarmi, è destinato a fallire. Ed è mia intenzione fare in modo che il suo fallimento sia totale», disse dy Jironal, in tono colloquiale, sedendosi sul bordo della scrivania e incrociando le braccia sul petto.