— Allora sarebbero molto più stolidi di quanto li giudico — scattò. — Ascolta, lei ha la verga.

— A che le servirebbe? — Hilta era vicina alle lacrime.

— Mi pare che non hai capito niente di ciò che ti ho raccontato — disse severa la Nonnina. — Non ci resta che tornare a casa tua e attendere.

— Per quale ragione?

— Le grida o i rumori violenti o le palle di fuoco o che altro — rispose un po’ vagamente la Nonnina.

— È tremendo!

— Oh, mi aspetto che è quanto gli capiterà. Dammi retta, tu va avanti e metti il bricco sul fuoco.

Hilta le lanciò uno sguardo disorientato, poi salì sulla scopa e si alzo adagio con volo irregolare nelle ombre tra i camini. Se le scope fossero vetture, la sua sarebbe stata una Mini Morris con i vetri a doppio scorrimento.

Dopo averla osservata per un po’, la Nonnina la seguì camminando sulia via bagnata. Era ben decisa che non l’avrebbero mai indotta a salire su uno di quei così.

Esk era stesa tra le lenzuola leggermente umide del grande letto di piume nella stanza dell’attico dell’Indovinello. Era stanca, ma non riusciva a dormire. Prima di tutto, il letto era troppo freddo. Si chiese incerta se avrebbe avuto il coraggio di riscaldarlo, ma ci ripensò. Per quanta attenzione mettesse negli esperimenti, non pareva capace di padroneggiare gli incantesimi riguardanti il fuoco. O non funzionavano affatto o funzionavano fin troppo bene. I boschi intorno al cottage stavano diventando pericolosi in seguito ai buchi lasciati dalla scomparsa delle palle di fuoco. Almeno, sosteneva la Nonnina, se quel tipo di magia non funzionava, lei avrebbe avuto un bell’avvenire nella costruzione dei gabinetti o nello scavo dei pozzi.

Si girò, cercando di non badare al lieve odore di muffa del letto. Poi allungò un braccio nel buio finché la sua mano non trovò la verga, appoggiata alla spalliera. La signora Skiller aveva molto insistito per portarla giù, ma Esk ci si era aggrappata con tutte le sue forze. Era l’unica cosa al mondo che lei fosse assolutamente certa le appartenesse.

Toccare la lucida superficie con le sue strane incisioni le dava uno strano senso di conforto. La bambina si addormentò e sognò di bracciali, pacchetti strani e montagne. E stelle lontane alte sulle montagne, e un freddo deserto dove strane creature avanzavano barcollanti attraverso la sabbia e la fissavano con i loro occhi da insetti…

Uno scricchiolio sulla scala. Poi un altro. Quindi il silenzio, quella specie di silenzio soffocato, ovattato di qualcuno che si sforza di rimanere immobile.

La porta si aprì. La figura di Skiller disegnò un’ombra più densa contro la luce delle candele proveniente dalla scala; seguì una breve conversazione bisbigliata prima che l’uomo si dirigesse in punta di piedi verso la spalliera del letto, il più silenziosamente possibile. Cercò a tastoni con precauzione la verga che scivolò da un lato, ma lui fu svelto ad afferrarla e mandò fuori adagio il respiro che aveva trattenuto.

Così gliene restava poco per urlare quando la verga gli si mosse nelle mani. Ne sentì la squamosità, la rivolta, la forza…

Esk si drizzò a sedere in tempo per vedere Skiller rotolare giù per la ripida scala, sempre agitando disperatamente le braccia contro un qualcosa d’invisibile che le avvolgeva. Dal basso venne un altro grido quando lui atterrò sulla moglie.

La verga cadde con un tonfo sul pavimento dove rimase circondata da un debole alone di ottarino.

Esk scese dal letto e attraversò la stanza. Risuonò una imprecazione minacciosa. La bambina fece capolino dalla porta e si trovò davanti la faccia della signora Skiller.

— Dammi quella verga!

Esk si chinò a raccoglierla, le dita strette intorno al fusto di lucido legno. — No. È mia.

— Non è un oggetto adatto per le bambine — la rimbeccò la moglie del barista.

— Appartiene a me — dichiarò Esk e richiuse piano la porta. Rimase un momento ad ascoltare i borbottii che le giungevano dal basso e a riflettere sulla sua prossima mossa. Trasformare la coppia in qualche modo probabilmente avrebbe causato soltanto un trambusto e comunque non era del tutto certa di come farlo.

Il fatto era che la magia funzionava davvero solo quando lei non ci pensava. Pareva che la sua mente le facesse da ostacolo.

Riattraversò la stanza per aprire la finestrella e lasciò entrare gli strani effluvi notturni della civiltà: l’umidità che saliva dalle strade, il profumo dei giardini fioriti, il debole lezzo proveniente in distanza da una latrina troppo piena. Fuori c’erano delle tegole bagnate.

Sentendo Skiller risalire la scala, Esk spinse la verga fuori sul tetto e le strisciò dietro, aggrappandosi al cornicione della finestra. Il tetto scendeva inclinato su una rimessa e lei si sforzò di mantenersi in equilibrio, un po’ strisciando e un po’ avanzando carponi sulle tegole sconnesse. Dopo un salto di due metri su una pila di vecchi barili, scivolò giù in fretta sul legno sdrucciolevole e attraversò di corsa senza altri inciampi il cortile della locanda.

Sgambettando nella nebbia della strada, ancora udiva l’eco di una discussione animata giungerle dall’Indovinello.

Skiller passò a precipizio accanto alla moglie e posò una mano sul rubinetto del fusto più vicino. Aspettò un attimo e poi lo aprì.

L’odore acutissimo del brandy di pesca riempì il locale. Lui richiuse il getto e si rilassò.

— Temevi che si sarebbe trasformato in qualcosa di brutto? — gli domandò la moglie. Lui annuì.

— Se non fossi stato così maldestro… — cominciò la donna.

— Ti dico che mi ha morso!

— Avresti potuto essere un mago e non ci saremmo più dovuti preoccupare. Non hai un po’ di ambizione?

Skiller scosse la testa. — Secondo me, ci vuole più di una verga per fare un mago — replicò. — Comunque, ho sentito dire che ai maghi non è permesso di sposarsi, non gli è nemmeno permesso di… — esitò.

— Che cosa? Permesso che cosa?

Il marito si dimenò. — Be’. Lo sai. Quella cosa.

La signora Skiller dichiarò spicciativa: — Non so di che stai parlando.

— No, suppongo di no.

La seguì riluttante fuori dalla sala buia. Forse, quanto a questo, i maghi non se la passavano poi tanto male…

La sua idea si dimostrò giusta quando la mattina seguente rivelò che i dieci fusti di brandy di pesca si erano davvero mutati in qualcosa di brutto.

Esk vagò per le strade grige finché arrivò ai piccoli moli fluviali di Ohulan. Delle larghe chiatte piatte si dondolavano contro le banchine e dai tubi da stufa di una o due di loro uscivano delle volute di fumo. Esk si arrampicò senza difficoltà sulla più vicina e con l’aiuto della verga sollevò il telone incerato che ne ricopriva buona parte.

Un odore pungente, un misto di lanolina e di letame, si levò in aria. La chiatta portava un carico di lana.

È sciocco andare a dormire su una chiatta qualsiasi, senza sapere quali strane sponde vi scorreranno sotto gli occhi quando vi sveglierete, senza sapere che di norma le chiatte partono di buon’ora, appena al levar del sole, senza sapere quali nuovi orizzonti vi saluteranno l’indomani…

Voi questo lo sapete. Esk no.

Esk si svegliò sentendo qualcuno fischiare. Rimase immobile, riandando nella mente gli avvenimenti della sera finché non si ricordò perché si trovava lì. Allora si girò con precauzione su un fianco e alzò un lembo del telone.

Era lì, dunque. Ma il "lì" si era mosso.

"Allora, è questo che chiamano navigare" pensò mentre osservava passarle avanti la sponda lontana. "Non mi sembra molto speciale."

Non le venne in mente di preoccuparsi. Per i primi otto anni della sua vita il mondo era stato un luogo particolarmente noioso e, adesso che cominciava a farsi interessante, lei non intendeva comportarsi da ingrata.

Al fischio dell’uomo si unì il latrare di un cane. Esk si riadagiò nella lana, si concentrò fino a trovare la mente dell’animale e vi penetrò con prudenza. Dal suo cervello inefficiente e disorganizzato apprese che sulla chiatta c’erano almeno quattro persone e molte di più sulle altre imbarcazioni a rimorchio in fila sul fiume. Tra di loro c’erano dei bambini.