Lasciò andare l’animale e si mise di nuovo a contemplare a lungo la scena. Ora la chiatta passava tra due alte scogliere, dove la roccia assumeva così tanti colori da far pensare che un Dio affamato avesse confezionato il club sandwich record di tutti i tempi. Cercò di scacciare il pensiero che le si presentò subito dopo. Ma quello persisteva e le entrava in mente come il danzatore di limbo che, inatteso, passi sotto la porta del gabinetto della Vita. Presto o tardi lei avrebbe dovuto lasciare il suo nascondiglio. Non era il suo stomaco a incalzarla, ma la sua vescica non ammetteva ritardo.

Forse se lei…

Il telone venne scostato dalla sua testa con mossa rapida e una grossa faccia barbuta la guardò.

— Bene, bene — esclamò. — Allora, cosa abbiamo qui? Una passeggera clandestina, sì o no?

Esk la fissò. — Sì — rispose. Le sembrava inutile negarlo. — Potresti aiutarmi a uscire, per piacere?

— Non hai paura che ti butti al… al luccio? — chiese la faccia. E, notando lo sguardo perplesso della piccola, aggiunse: — Un grosso pesce d’acqua dolce. Veloce. Un sacco di denti. Luccio.

Un pensiero simile non l’aveva nemmeno sfiorata. — No — rispose sincera. — Perché? Lo farai?

— No. No certo. Non c’è bisogno di spaventarsi.

— Non lo sono.

— Oh! — Un braccio dalla pelle scura, attaccato alla testa secondo le normali regole, apparve e l’aiutò a tirarsi fuori dal suo nido lanoso.

In piedi sul ponte della chiatta, Esk si guardò intorno. Il cielo, di un azzurro di porcellana, si stendeva sulla larga vallata attraverso la quale il fiume scorreva pigro.

Dietro a lei le Ramtop ancora fungevano da barriera per le nuvole, ma non dominavano più il paesaggio come avevano sempre fatto da quando Esk le conosceva. La distanza le aveva ridotte.

— Dove siamo? — chiese annusando i nuovi odori di acquitrini e di carici.

— La Vallata Superiore del fiume Ankh — rispose l’uomo che l’aveva scoperta. — Che ne pensi?

Lei lasciò vagare lo sguardo su e giù per il fiume. Che era già molto più largo di quanto era a Ohulan.

— Non so. Di sicuro ce n’è tanto. Questa è la tua nave?

— Barca — la corresse lui. Era più alto di suo padre, ma non così vecchio, e abbigliato come uno zingaro. La maggior parte dei suoi denti erano diventati d’oro, ma Esk decise che non era il momento di chiedergli il perché. Aveva quel genere di abbronzatura che i ricchi ci mettono un’eternità per ottenere a prezzo di vacanze dispendiose e carta stagnola. Quando per averla basta farsi un culo così lavorando all’aria aperta tutto il giorno.

L’uomo aggrottò la fronte. — Sì, è mia — rispose, deciso a riprendere l’iniziativa. — E tu che ci fai qui, vorrei sapere? Sei scappata di casa, sì o no? Se fossi un ragazzo, direi che vai in cerca di fortuna?

— E le ragazze non possono farlo?

— Si suppone, credo, che cerchino un ragazzo che la fortuna ce l’ha già — disse l’uomo, con un sorriso a duecento carati. Le tese una mano scura, piena di anelli. — Vieni a fare colazione.

— A dire la verità, vorrei usare il tuo gabinetto — dichiarò la bambina.

L’uomo spalancò la bocca. — Questa è una chiatta, sì o no?

— Sì.

— Il che significa che c’è soltanto il fiume. — Le batté sulla mano. — Non ti preoccupare — aggiunse. — Lui ci è abituato.

In piedi sulla banchina, la Nonnina batteva impaziente il piede sulle assi di legno. L’ometto, che era quanto di più simile avesse Ohulan in fatto di direttore dei docks, stava visibilmente ritirandosi sotto l’impatto dell’occhiata minacciosa della vecchia. Forse l’espressione di lei non era così crudele quanto l’antico strumento per schiacciare i pollici del condannato, ma pareva suggerire che quella tortura fosse una possibilità concreta.

— Sono partiti prima dell’alba, dici — lo interrogò la Nonnina.

— Sss…ì. Ehm. Non sapevo che non avrebbero dovuto.

— Hai visto una bambina a bordo? — Lo stivaletto della vecchia non cessava di tamburellare.

— Uhm. No. Mi dispiace. — Il viso dell’ometto si rischiarò. — Erano Zoon — continuò. — Se la bambina è con loro, non le sarà fatto alcun male. Si può sempre fidarsi di uno Zoon, dicono. Ci tengono molto alla famiglia.

La Nonnina si voltò verso Hilta, ondeggiante come una farfalla sconcertata, e inarcò le sopracciglia.

— Oh, sì — trillò l’amica. — Gli Zoon hanno un’ottima fama.

— Uhm — borbottò la vecchia. Girò sui tacchi e si avviò di nuovo verso il centro della città. L’ometto si accasciò come se gli avessero appena tolto la gruccia dalla camicia.

L’abitazione di Hilta stava sopra un erborista e dietro una conceria e offriva una splendida vista dei tetti di Ohulan. A lei piaceva perché garantiva la privacy sempre apprezzata (come diceva lei) "dai miei clienti più giudiziosi, i quali preferiscono fare i loro specialissimi acquisti in un’atmosfera di calma dove la parola d’ordine è sempre la discrezione."

Nonnina Weatherwax esaminò il soggiorno con disprezzo malcelato. C’erano troppe nappine, tende di perline, carte astrologiche e gatti neri. La Nonnina i gatti non li sopportava. Annusò l’aria.

— È la conceria? — chiese in tono accusatorio.

— Incenso — rispose Hilta. Davanti al disprezzo della Nonnina fece fronte con coraggio. — I clienti lo apprezzano. Li mette nella giusta disposizione d’animo. Tu sai com’è.

— Avrei pensato, Hilta. che si potesse fare un mestiere perfettamente rispettabile senza ricorrere a trucchi da salotto. - La Nonnina si sedette e si accinse alla lunga e difficile operazione di togliersi gli spilloni.

— In città è diverso — obiettò Hilta. — Bisogna muoversi con i tempi.

— Ne sono sicura. Non so perché. Il bricco è sul fuoco? — La vecchia allungò un braccio sul tavolo e tirò via il cappuccio di velluto dalla palla di cristallo dell’amica, una sfera di quarzo grossa come la sua testa.

— Non sono mai riuscita a cavarmela con questo dannato coso di silicone — dichiarò. — Quando ero ragazza, andava benissimo una ciotola d’acqua con dentro una goccia d’inchiostro. Vediamo un po’…

Scrutò il cuore danzante della sfera e cercò di servirsene per concentrare la sua mente sul luogo dove si trovava Esk. Nel migliore dei casi era rischioso usare una sfera di cristallo: fissarla voleva dire di solito che l’unica cosa garantita che ti riserbava il futuro era una forte emicrania. La Nonnina non se ne fidava perché riteneva che rientrasse nell’arte dei maghi. Per due soldi, così la pensava lei, quella disgraziata palla ti risucchiava la mente come un mollusco dalla sua conchiglia.

— Questo dannato oggetto è tutto una scintilla — si lamentò. Ci soffiò sopra e lo pulì con la manica. Hilta si chinò sulla sua spalla per guardare.

— Quella non è una scintilla, quella significa qualcosa — disse lentamente.

— Che cosa?

— Non sono sicura. Posso provare? Lei è abituata a me. — Spinse via un gatto dall’altra sedia e si chinò in avanti a scrutare nelle profondità del cristallo.

— Uhm… fa pure. Ma non troverai…

— Aspetta. Sta apparendo qualche cosa.

— Da qui sembra tutto scintillante — insisté la Nonnina. — Piccole luci argentee fluttuanti come in quei giocattoli, sai, una tempesta di neve in una bottiglietta. Davvero carino.

— Già, ma guarda bene oltre i fiocchi…

La vecchia guardò.

Ecco ciò che vide.

Si trovava molto in alto e sotto le si presentava una vasta distesa attraverso la quale scorreva tortuoso un grande fiume come un serpente ubriaco. In primo piano fluttuavano le luci argentee ma non erano, per così dire, che pochi fiocchi nella tempesta di luci che si avvitavano in una grande spirale pigra (paragonabile a un tornado geriatrico con un attacco di neve), per poi ricadere giù, giù sul paesaggio indistinto. Aguzzando la vista, la Nonnina riusciva a scorgere dei puntolini sul fiume…

Di tanto in tanto, una specie di lampo brillava per un attimo nel turbine delle pagliuzze.