La verga si tuffava tra neri dirupi e lungo le alte vallate spoglie, dove si diceva che una volta scorressero fiumi ghiacciati, al tempo dei Giganti del Ghiaccio. L’aria, che si era fatta sottile, pungeva la gola.

Si arrestarono d’improvviso su un cumulo di neve. La Nonnina cadde e rimase ansimando a terra, mentre cercava di ricordarsi perché stesse sopportando tante traversie.

A pochi centimetri più in là, scorse sotto una sporgenza un mucchio di penne. Lei si avvicinò e una testa si alzò di scatto: l’aquila la fissava con uno sguardo selvaggio e spaventato. Tentò di volare via e ricadde. La vecchia allungò una mano per toccarla e quella le staccò di netto un triangolo di carne.

— Capisco — disse calma la Nonnina, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Si guardò intorno e trovò un masso delle dimensioni giuste. Sparì dietro di esso per qualche secondo, per amore della rispettabilità, e ricomparve con in mano una sottogonna. L’uccello ci si avventò contro, rovinando il ricamo a piccolo punto, lavoro di varie settimane. Ma lei riuscì a farne un involto e tenerlo in modo da evitare i suoi sporadici attacchi.

Poi si voltò verso la verga, che adesso era conficcata ritta nel cumulo di neve.

— Tornerò indietro a piedi — le disse freddamente.

Si accorse però che si trovavano su uno sperone che dava su un salto di parecchie centinaia di metri per finire su nere rocce aguzze.

— Benissimo, allora — concesse la Nonnina — ma devi volare adagio, hai capito? Senza salire in alto.

In effetti, sia perché lei aveva adesso un po’ più di esperienza, sia perché forse la verga ci faceva più attenzione, il viaggio di ritorno fu quasi tranquillo. Tanto che la vecchia a momenti si persuadeva che, con il tempo, sarebbe arrivata a non gradire il volo invece di esecrarlo. Bisognava soltanto smettere in qualche modo di guardare il terreno.

L’aquila era stesa sul vecchio tappetino davanti al focolare vuoto. Aveva bevuto dell’acqua sulla quale la Nonnina aveva bofonchiato qualche incantesimo che diceva di solito per impressionare i pazienti. Ma non si sa mai, potevano pure avere qualche effetto. L’animale aveva anche ingoiato dei pezzi di carne cruda.

Ciò che non aveva fatto era rivelare il minimo segno d’intelligenza.

La strega si domandava se dopo tutto fosse quello l’uccello giusto. Rischiò un’altra beccatina e fissò intenta gli occhi gialli e cattivi, cercando di convincersi che nelle loro profondità brillasse un piccolo lampo, quasi impercettibile.

Scrutò l’interno della testa. La mente dell’aquila era sempre lì, vivida e vigile, ma c’era dell’altro. La mente, naturalmente, non ha colore e nondimeno le fibre di quella dell’aquila sembravano purpuree. Intorno e mescolate con loro c’erano deboli tracce argentee.

Esk aveva imparato troppo tardi che la mente dà forma al corpo, che Prendere a prestito è una cosa ma che il sogno di assumere realmente un’altra forma comporta automaticamente una punizione.

La Nonnina sedeva e si dondolava. Non sapeva che fare. Sapeva che il Districamento delle menti aggrovigliate era al di là dei suoi poteri, al di là di qualsiasi potere nelle Ramtop, al di là perfino…

Non si udì alcun rumore, ma forse si produsse un cambiamento nel tessuto dell’aria. La vecchia alzò gli occhi sulla verga, che a malincuore aveva riportato nel cottage.

— No — pronunciò con fermezza.

Poi pensò: "Perché l’ho detto? Per me? In quella c’è il potere, ma non è il potere del mio genere."

"Tuttavia, qui intorno non ne esiste di alcuna altra specie. E anche ora, può essere troppo tardi."

"Potrebbe forse non essere mai abbastanza presto."

S’introdusse di nuovo nella testa dell’uccello per calmare i suoi timori e dissipare il panico. L’animale si lasciò prendere su e rimase aggrappato al suo polso, stringendo tanto forte gli artigli da farle uscire il sangue.

La Nonnina prese la verga e andò di sopra, dove Esk giaceva sul lettuccio nella stanza dal basso soffitto a volta.

Depose l’uccello sulla spalliera del letto e rivolse la sua attenzione alla verga. Ancora una volta gli intagli si spostarono sotto il suo sguardo, senza mai rivelare del tutto la loro vera forma.

La Nonnina non era ignara degli usi del potere, ma era consapevole di non poter fare assegnamento che su una blanda pressione per dirigere lo svolgimento degli eventi. Naturalmente, lei non si sarebbe espressa in questi termini: avrebbe detto che c’era sempre una leva se uno sapeva dove cercarla. Il potere della verga era duro, violento, magia allo stato puro distillata dalle forze che governavano l’universo stesso.

Ci sarebbe stato un prezzo da pagare. E la Nonnina ne sapeva abbastanza delle arti magiche per essere certa che sarebbe stato un prezzo alto. Ma a che valeva essere del mestiere, se ci si preoccupava del prezzo?

Si schiarì la gola, chiedendosi che diavolo avrebbe dovuto fare. Forse se lei…

Il potere la colpì come se le avessero lanciato un mattone. Si sentì prendere e sollevare tanto che la sorprese abbassare gli occhi e vedere di avere i piedi ancora ben piantati a terra. Provò a fare un passo avanti e scariche magiche crepitarono nell’aria intorno a lei. Allungò una mano per sostenersi alla parete e sotto le sue dita le vecchie assi di legno si mossero e presero a far germogliare le foglie. Un ciclone di magia turbinò nella stanza e alzò la polvere modellandola per un attimo in strane forme sconcertanti, sul lavamano la brocca e il catino, con il loro delizioso motivo a boccioli di rosa, si ruppero in frammenti. Sotto il letto il tradizionale terzo componente del trio di porcellana si trasformò in una cosa orribile e sgattaiolò via.

La Nonnina aprì la bocca per imprecare, ma ci ripensò vedendo le sue parole divenire nuvole sfrangiate d’arcobaleno.

Guardò Esk e l’aquila, che non pareva accorgersi di nulla, e si sforzò di concentrarsi. Si lasciò penetrare nella testa dell’animale e di nuovo nella sua mente vide i fili d’argento avviluppati così strettamente a quelli purpurei da assumere la medesima forma. Adesso, però, poteva scorgere dove terminavano e dove sarebbe stato possibile dipanarli con prudenza. Una cosa tanto ovvia che lei ne rise e il suono della sua risata si alzò in volute arancioni e rosse che si dileguarono nel soffitto.

Il tempo passava. Il compito, malgrado il potere le pulsasse nella testa, si rivelò estremamente difficile; era come infilare un ago al riverbero lunare, ma alla fine si ritrovò con una manciata d’argento. Nel mondo lento e pesante, che sembrava adesso essere il suo, la vecchia prese la matassina e la lanciò adagio verso Esk. La vide trasformarsi in una nuvola, che vorticò e si disperse.

La Nonnina percepì allora un pigolio acuto e scorse delle ombre vaghe. Pazienza, era quanto accadeva a tutti presto o tardi. Erano arrivati, attirati come sempre da una scarica di magia. Occorreva soltanto imparare a ignorarli.

La vecchia si svegliò con la luce brillante del sole che le batteva sugli occhi. Si ritrovò accasciata contro la porta, con la sensazione che l’intero suo corpo soffrisse di mal di denti.

Allungò a tentoni una mano, trovò l’orlo del lavamano e si tirò su a sedere. Non la sorprese vedere che brocca e bacinella avevano lo stesso aspetto di sempre. Anzi, la curiosità ebbe la meglio sui suoi dolori e lei diede una rapida occhiata sotto il letto per controllare che, sì, tutto era come d’abitudine.

L’aquila era ancora appollaiata sulla ringhiera del letto. Esk dormiva ancora, di un sonno vero e non dell’immobilità di un corpo assente. Non restava che sperare che non si svegliasse con l’irresistibile impulso di avventarsi sui conigli.

La Nonnina portò giù l’uccello che non oppose resistenza, e lo lasciò andare libero dalla porta posteriore. Quello volò pesantemente sull’albero più vicino, dove si sistemò a riposarsi. Sospettava di dovercela avere con qualcuno, ma non riusciva a ricordarne il perché, nemmeno se ne fosse andato della sua vita.