Calapine si passò una mano sulla naso e la bocca, la guardò. Sangue. Ora ne sentiva l’odore allettante. Il proprio sangue. Ne fu affascinata. Si avvicinò ai prigionieri, mostrò la mano a Harvey Durant.
«Sangue,» gli disse. Si toccò il naso. Dolore! «Soffro,» annunciò. «Perché sto soffrendo, Harvey Durant?» Lo fissò negli occhi. Durant la guardava con uno sguardo così addolorato. Lui era un essere umano, provava dei sentimenti.
Harvey continuò a guardarla, i loro occhi quasi allo stesso livello grazie alla piattaforma. Improvvisamente provò per lei una grande pietà. Lei era Lizbeth, Calapine, ogni donna mai vissuta. Si accorse che la donna lo fissava con attenzione spasmodica, in attesa della sua risposta, dimentica di ogni altra cosa.
«Anch’io soffro, Calapine,» disse infine. «E la vostra morte mi farebbe soffrire ancora di più.»
Per un istante, Calapine pensò che il baccano nella sala fosse cessato. Poi comprese che continuava ancora più intenso. Udiva Nourse cantilenare «Bene! Bene!» e Schruille ripetere «Eccellente! Eccellente!» Fu conscia di essere stata l’unica ad aver ascoltato le terribili parole di Durant. Erano parole oscene. Aveva vissuto migliaia di anni tentando di cancellare il concetto stesso di morte individuale. Esso non poteva essere espresso, e neppure pensato. Ma Calapine aveva udito quelle parole. Provò il desiderio di far finta che non fossero mai state pronunciate. Ma un frammento dell’attenzione che aveva concentrato su Durant la costrinse a riflettere sul loro significato. Solo pochi minuti prima, aveva visto come i semi della vita superavano gli eoni. Aveva percepito la presenza di forze, al di fuori di qualsiasi controllo, che potevano agire nel mitocondrio di una cellula.
«La prego,» sussurrò Lizbeth. «Ci liberi. Lei è una donna. Deve provare un po’ di compassione. Cosa abbiamo fatto di male? Desiderare l’amore, la nascita di una nuova vita sono crimini tanto gravi? Non volevamo farvi alcun male.»
Calapine non diede segno di aver udito la supplica. Nella sua mente continuavano a risuonare le parole di Harvey, La vostra morte… la vostra morte… la vostra morte…
Il suo corpo fu assalito da vampate di gelo e di calore. Udì un altro applauso. Si rese conto del malessere che l’aveva assalita, del vicolo cieco in cui era stata intrappolata. Fu invasa dalla rabbia. Si chinò verso i controlli della piattaforma, premette un bottone sotto i piedi di Glisson.
Le lastre da cui era formato l’involucro che imprigionava il Cyborg iniziarono a stringersi. Glisson sbarrò gli occhi ed emise un ansito roco. Calapine ridacchiò, premette un altro bottone. Le lastre ritornarono al loro posto. Questa volta Glisson ansimò di sollievo.
Calapine sfiorò con la mano i controlli dell’involucro di Harvey. «Giustifica subito il tuo imperdonabile comportamento!» ordinò.
Harvey rimase in silenzio, gelato dalla paura. Stava per essere schiacciato come un insetto!
Svengaard iniziò a ridere. Ormai aveva compreso di ricoprire un ruolo di secondo piano in tutta quella faccenda. Non riusciva a immaginare il perché fosse stato scelto per assistere a una scena del genere: Glisson e Boumour apatici e silenziosi, Nourse e Schruille che deliravano sui loro scranni, gli Optimati in preda a una violenza insensata, Calapine pronta a ucciderli tutti, per poi dimenticarsene un istante dopo. La sua risata divenne più forte, più selvaggia.
«Smettila di ridere!» gridò Calapine.
Il corpo di Svengaard tremava, in preda a un attacco di ilarità isterica. Annaspò nel tentativo di riprendere fiato. Poi la voce sferzante di Calapine lo aiutò a riacquistare l’autocontrollo. Ma l’intera situazione rimaneva immensamente comica.
«Pazzo!» lo schernì Calapine. «Dimmi perché stavi ridendo!»
Svengaard la fissò. Ora nei confronti di Calapine provava soltanto della pietà. Ricordò il mare che bagnava Lapush, il luogo in cui andavano a riposarsi i medici, e comprese il motivo per cui gli Optimati avevano edificato la Centrale il più lontano possibile da qualunque oceano. Le onde del mare avrebbero loro ricordato che lottavano contro ben altri flutti: quelli dell’eternità. E gli Optimati erano incapaci di sopportare quel pensiero.
«Rispondimi,» ordinò Calapine. La sua mano era vicinissima ai controlli.
Svengaard si limitò a fissare lei, e la follia che si era impadronita degli Optimati. Ora li comprendeva perfettamente; era come se i loro corpi e le loro menti giacessero aperti davanti al suo sguardo.
Le loro anime hanno una sola cicatrice, pensò Svengaard.
Era stata scavata giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, eone dopo eone — il timore sempre più grande che la benedizione dell’immortalità potesse rivelarsi un’illusione, che dopo tutto la loro esistenza privilegiata potesse finire. Fino a quel momento, Svengaard non aveva mai sospettato quale prezzo pagassero gli Optimati per la loro immortalità. Più vivevano, più essa aumentava di valore. Più aumentava di valore, più temevano di perderla. Era un circolo vizioso… e la pressione continuava ad aumentare… per l’eternità.
Ma, prima o poi, si sarebbe raggiunto il punto di rottura. I Cyborg l’avevano intuito, ma la loro logica fredda e inumana aveva fatto sì che fossero stati incapaci di prevedere le vere conseguenze.
Gli Optimati erano sempre vissuti circondandosi di eufemismi. Chiamavano farmacisti i dottori, poiché il termine "dottore" implicava concetti come "malattia", e questo per gli Optimati era impensabile. Per loro esisteva soltanto la Farmacia Centrale, e i suoi innumerevoli Dispensatorii, uno dei quali era sempre a pochi passi da qualsiasi Optimate. Non si allontanavano mai dalla Centrale e dalle sue sofisticate difese. Perpetui adolescenti, continuavano a vivere in un asilo infantile trasformatosi in prigione.
«E così non vuoi dirmelo,» concluse Calapine.
«Aspetti,» disse Svengaard, mentre Calapine avvicinava la mano ai pulsanti che controllavano la sua prigione di plasmeld. «Quando avrete ucciso tutti gli individui fertili, e sarete rimasti soltanto voi, quando vi vedrete morire, allora cosa succederà?»
«Come osi!» sibilò Calapine. «Tu osi interrogare un Optimate, la cui esperienza di vita riduce la tua a questo!» Schioccò le dita.
Svengaard guardò il naso illividito di Calapine, il sangue.
«Optimate,» recitò. «Uno Steri la cui costituzione accetta la modifica enzimica che dona l’immortalità… finché il suo stesso corpo inizia ad autodistruggersi. Io penso che voi vogliate morire.»
Calapine si raddrizzò, gli scoccò un’occhiata rabbiosa. Mentre lo faceva, si rese conto del bizzarro silenzio che all’improvviso era sceso sull’intera sala. Si guardò intorno, vide che tutti gli Optimati la stavano fissando attentamente. Poi ne comprese la causa. Hanno notato il sangue sul mio volto.
«Eravate immortali,» proseguì Svengaard. «Ma questo vi ha reso più brillanti, più intelligenti? No. Avete semplicemente vissuto più a lungo, avendo a disposizione più tempo per educare voi stessi, per vivere numerose esperienze. Molto probabilmente non è servito a nulla, oppure avreste compreso molto tempo fa che questo momento era inevitabile: l’equilibrio infranto, la morte di voi tutti.»
Calapine arretrò di un passo. Le parole di Svengaard erano coltelli brucianti che le ferivano i nervi.
«Guardi se stessa, i suoi pari!» incalzò Svengaard. «Tutti voi state male. E cosa fa il vostro prezioso sistema medico computerizzato? Io lo so, senza bisogno che me lo dica qualcun altro: sta tentando di bilanciare le oscillazioni; è stato programmato per questo. Lo farà finché glielo permetterete, ma questo non vi salverà.»
Qualcuno gridò alle sue spalle, «Fatelo tacere!»
Il grido si diffuse per la sala, divenne un canto assordante. Gli Optimati iniziarono a battere i piedi, a battere i pugni sui banchi. «Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere!»