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«Non ce n’è bisogno,» si arrese Nourse. «Ho cambiato idea. Portateli qui… se ci riuscite.»

«Allora è stabilito,» fece Schruille. Digitò l’ordine su di un bracciolo del trono. «Vedete, è tutto così semplice.»

«Davvero?» commentò ironico Nourse. «E allora perché tutto a un tratto io e Calapine siano diventati tanto riluttanti a usare la violenza? Perché rimpiangiamo i vecchi tempi, quando c’era Max che ci proteggeva da noi stessi?»

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La Sala del Consiglio non aveva ospitato una simile folla, da quando, trentamila anni prima, si era svolto il dibattito sull’autorizzazione per esperimenti limitati dei Cyborg su individui della loro stessa specie. Gli Optimati occupavano file di banchi in plasmeld, i cui cuscini multicolori provocavano un’iridescenza. Alcuni erano nudi, ma la maggior parte di essi, consci della solennità dell’occasione, erano giunti indossando vestiti di svariate epoche storiche, scelti secondo il capriccio individuale. Si notavano toghe, gonnellini, gonne coperte di trine, perizomi e muu-muu, in una ridda di tessuti e di stili che risalivano fino alla preistoria.

Coloro che non erano riusciti a entrare nella sala, osservavano la scena attraverso mezzo milione di sensori video che luccicavano tutt’intorno le pareti.

Era appena spuntata l’alba, nell’emisfero in cui era ubicata la Centrale, ma nessun Optimate dormiva.

Il Globo di Controllo era stato spostato di lato e i membri della Tuyere occupavano tre scranni all’estremità opposta della sala. I prigionieri erano stati introdotti dagli accoliti in una piattaforma pneumatica. I cinque sedevano sulla piattaforma, immobilizzati all’interno di lastre di plasmeld azzurro che permettevano loro a malapena di respirare.

Quando abbassò lo sguardo su di loro dal suo scranno, Calapine si permise un lieve sorriso, notando le cinque figure imprigionate in maniera tanto crudele. La donna: nei suoi occhi si scorgeva un tale terrore. Il volto di Harvey Durant distorto dall’ira. L’attesa piena di rassegnazione di Glisson e Boumour. Svengaard, invece, aveva l’aria di chi si fosse appena svegliato da un sogno.

Eppure Calapine aveva l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava. Non riusciva a comprendere il motivo, ma si sentiva vuota.

Nourse ha ragione, pensò. Questi cinque criminali sono davvero importanti.

Qualche Optimate seduto ai primi banchi aveva portato con sé un carillon, e la sua fievole melodia argentina poteva essere udita al di sopra del costante brusio che riempiva la sala. Il suono sembrò farsi più forte, mentre gli Optimati iniziavano a far silenzio, pieni d’aspettativa. Il carillon si interruppe a metà della melodia.

La sala era sempre più silenziosa.

Nonostante la paura, Lizbeth si guardò intorno. Prima di quel momento, non aveva mai visto un Optimate in carne e ossa, ma solo sugli schermi che trasmettevano comunicazioni di interesse pubblico (Durante la sua vita, la maggior parte delle volte erano comparsi i membri della Tuyere, sebbene alcuni tra la Gente, più vecchi, menzionassero la Triade Kagiss, che aveva preceduto quella attuale). Gli Optimati le sembrarono così diversi, colorati… e così distaccati. Ebbe la terribile impressione che tutto non fosse accaduto per caso, che trovarsi lì, in compagnia degli altri quattro prigionieri, fosse il risultato di un terribile schema ordito dal Fato.

«Sono completamente immobilizzati,» commentò Schruille. «Non c’è nulla da temere.»

«Eppure sono spaventati,» replicò Nourse. E a un tratto si ricordò un episodio che aveva vissuto durante la gioventù. Era stato invitato a casa di un amante delle antichità, un Edonista, che gli aveva mostrato con orgoglio le sue copie in plasmeld di statue ormai scomparse da millenni: un pesce gigantesco, una figura equestre acefala (dalle linee ardite), un monaco la cui testa era coperta da un cappuccio, e un uomo e una donna avvinti in un abbraccio terrorizzato. Comprese che erano stati i volti di Harvey e Lizbeth ad avergli ricordato quell’ultima statua.

In un certo qual modo, sono i nostri genitori, pensò Nourse. Anche noi discendiamo dalla Gente.

Improvvisamente, Calapine comprese che cosa mancava in quella scena. Non c’era un Max. Sapeva che era scomparso, e per un fuggevole istante si chiese che cosa gli fosse accaduto. Forse era troppo vecchio, non serviva più. Il nuovo Max evidentemente non era ancora pronto.

È strano che Max se ne sia andato in questo modo, pensò. Ma le vite della Gente sono effimere quanto tele di ragno. Un giorno sono lì; le vedi. Quello seguente, sono svanite. Devo ricordarmi di chiedere cosa è successo a Max. Ma sapeva che non l’avrebbe mai fatto. La risposta avrebbe potuto implicare una parola disgustosa, un concetto che l’avrebbe nauseata, seppure celato da un pietoso eufemismo.

«Prestate particolare attenzione al Cyborg Glisson,» dichiarò Schruille. «Non è strano che i nostri strumenti non rilevino in lui alcuna emozione?»

«Forse non ne ha,» osservò Calapine.

«Ah!» esclamò Schruille. «Un’ipotesi assai brillante.»

«Non mi fido di lui,» disse Nourse. «Un mio antenato mi ha raccontato dei trucchi usati dai Cyborg.»

«È sostanzialmente un robot, programmato per reagire nel modo più efficace per proteggere la propria esistenza. La sua attuale docilità è interessante.»

«Il nostro scopo non era quello di interrogarli?» chiese Nourse.

«Tra un istante,» disse Schruille, «metteremo a nudo i loro cervelli, ne estrarremo i ricordi per esaminarli. Ma prima, è meglio studiarli.»

«Sei così volgare, Schruille,» disse Calapine.

Un mormorio d’approvazione si diffuse nella sala.

Schruille lanciò un’occhiata a Calapine. La voce della donna aveva avuto un tono così strano. Scoprì di esserne stato turbato.

Gli occhi del Cyborg Glisson si mossero, valutando freddamente la scena, luccicando a causa delle lenti speciali che ne espandevano la capacità ottica.

«Se n’è accorto anche lei, Durant?» chiese con voce strozzata a causa del plasmeld che l’imprigionava.

Harvey ritrovò la voce. «Io… non… ci credo.»

«Stanno parlando tra loro,» disse Calapine in tono brillante. Fissò Harvey Durant, intravide nei suoi occhi uno sguardo in cui si mescolavano odio e compassione.

Compassione? si chiese.

Un’occhiata al minuscolo ripetitore da polso le confermò che i dati degli strumenti del Globo erano esatti. Compassione. Compassione! Come osa!

«Har… vey,» bisbigliò Lizbeth.

Una rabbia impotente distorse il viso di Harvey. Mosse gli occhi, ma non tanto da riuscire a vederla. «Liz,» sussurrò. «Liz, io ti amo.»

«Questo è il momento dell’odio, non dell’amore,» lo avvertì Glisson, con un tono distaccato che conferiva alle sue parole un’aura di irrealtà. «Dell’odio e della vendetta,» concluse Glisson.

«Cosa state dicendo?» chiese Svengaard. Era rimasto ad ascoltare le loro parole con crescente sbalordimento. Per un po’, aveva pensato di ricordare umilmente agli Optimati che lui era stato catturato, trattenuto contro il suo volere, ma un sesto senso gli disse che sarebbe stato inutile. Per quegli esseri superbi, lui non era nulla: la schiuma di un’onda che si frangeva contro un’alta roccia. E loro erano la roccia.

«Li guardi con l’occhio del medico,» lo esortò Glisson. «Stanno morendo.»

«È vero,» ammise Harvey.

Lizbeth aveva chiuso gli occhi per impedire alle lacrime di sgorgare. Ora li spalancò e fissò le persone intorno a lei, le vide attraverso gli occhi di Harvey e Glisson.

«Stanno davvero morendo,» alitò con un filo di voce.

Gli occhi addestrati di un Corriere non potevano sbagliarsi: la mortalità sul volto degli immortali! Ovviamente Glisson se n’era accorto grazie alla sua tipica capacità da ciberneuta di correlare e produrre ipotesi.