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"Forse non ha ancora fame" mi dissi. "Forse si nutre di notte." Con una serie di pensieri come questi cercai di tranquillizzarmi.

Ripresi a scrutare gli spazi di cielo fra una nuvola e l’altra, alla ricerca di un anello teleporter, me non ne vidi nessuno. Pareva follia, aspettarsi di trovarne uno: le correnti d’aria mi portavano più o meno verso ovest, ma i ghiribizzi della corrente a getto mi spingevano vari chilometri a nord o a sud. Come avrei potuto infilare la cruna di un così piccolo ago, dopo un giorno e una notte e un giorno di sbatacchiamenti? Mi pareva ben poco verosimile. Ma continuai a frugare il cielo.

A metà pomeriggio mi resi conto che c’erano altre creature viventi molto più in basso verso sud. Altri calamari si muovevano alla base di un’immensa torre di nuvole: la luce del sole penetrava nell’abisso quanto bastava a illuminare quei corpi trasparenti che si stagliavano contro il nero sottostante. Lungo la base di quella sola torre di nuvole c’erano decine, no centinaia, di quelle creature pulsanti. Ero troppo lontano per scòrgere intorno a loro le piastrine parassite, ma un’impressione di luce diffusa, simile a polvere galleggiante, suggeriva la loro presenza, a migliaia o a milioni. Mi domandai se di solito i mostri si mantenevano nei livelli inferiori dell’atmosfera e se quello che continuava a seguirmi a portata dei filamenti nutritivi si fosse avventurato più in alto per curiosità.

Cominciavo a sentire i crampi. Mi tirai fuori dell’abitacolo e cercai di stiracchiarmi sullo scafo del kayak, aggrappato alle bretelle della paravela per tenermi in equilibrio. Era pericoloso, ma dovevo sciogliere i muscoli. Mi distesi sulla schiena, alzai le gambe e pedalai una immaginaria bicicletta. Poi passai alle flessioni sulle braccia, aggrappato all’orlo dell’abitacolo. Eliminata la maggior parte dei crampi, strisciai di nuovo nell’abitacolo e sonnecchiai.

Sembra strano ammetterlo, ma per tutto quel pomeriggio fantasticai, anche mentre l’alieno calamaro nuotava nelle vicinanze, a distanza di pasto, e le aliene piastrine danzavano e volteggiavano a qualche metro dal kayak e dalla paravela. La mente umana si abitua molto in fretta alle cose strane, se non mostrano comportamenti interessanti.

Cominciai a pensare agli ultimi giorni e ai mesi passati e agli anni trascorsi. Pensai a Aenea — l’avevo abbandonata — e a tutte le altre persone che mi ero lasciato alle spalle: A. Bettik e gli altri a Taliesin West, il vecchio poeta su Hyperion, Dem Loa e Dem Ria e la loro famiglia su Vitus-Gray-Balianus B, padre Glauco nei tunnel d’aria congelata su Sol Draconis Septem, Cuchiat e Chiaku e Cuchtu e Chichticu e gli altri Chitchatuk su quello stesso pianeta (Aenea era sicura che padre Glauco e i nostri amici Chitchatuk fossero stati assassinati, dopo che noi avevamo lasciato quel pianeta, ma non mi aveva mai spiegato come lo sapesse) e tanti altri, risalendo fino all’ultima volta che avevo visto nonna e i membri del clan salutarmi col braccio, mentre partivo per il servizio nella Guardia nazionale, molti anni fa. Ma col pensiero tornavo sempre a Aenea.

"Ho abbandonato troppe persone" mi dissi. "E ho lasciato che troppe persone facessero il mio lavoro e combattessero al posto mio. D’ora in poi combatterò da me. Se mai la ritrovo, resterò con Aenea per sempre." Il proposito mi bruciò come ira, alimentato dalla consapevolezza di quanto fosse disperata l’impresa di trovare un altro teleporter in quell’infinito panorama di nuvole.

TU CONOSCI
COLEI CHE INSEGNA
TI HA
TOCCATO (!?!?)

Quelle parole non furono portate dal suono né udite dalle mie orecchie. Furono piuttosto colpi all’interno del mio cranio. Barcollai letteralmente e mi afferrai ai fianchi del kayak per non cadere di sotto.

SEI STATO
TOCCATO/CAMBIATO
IMPARANDO
AD ASCOLTARE/VEDERE/CAMMINARE
DA COLEI CHE INSEGNA
(????)

Ogni parola era una fitta di emicrania. Ogni parola mi colpiva con la forza di una emorragia cerebrale. Erano parole urlate nella mia testa, con la mia stessa voce. Forse cominciavo a impazzire.

Mi tolsi dagli occhi le lacrime e scrutai il gigantesco calamaro e il suo sciame di parassiti verdastri. L’organismo più grande pulsava, si contraeva, estendeva filamenti a spirale, nuotava nell’aria gelida. Non potevo credere che le parole provenissero da quella creatura. Era troppo biologico. E non credevo nella telepatia. Guardai lo sciame di creature discoidali, ma il loro comportamento non mostrava maggiore consapevolezza di quello delle particelle di polvere in un raggio di luce, inferiore al movimento sincronizzato di un banco di pesci o di uno sciame di pipistrelli. Sentendomi sciocco, gridai: «Chi sei? Chi parla?».

Socchiusi gli occhi, preparandomi all’esplosione di parole nel mio cervello, ma non ricevetti risposta dal gigantesco organismo o dai suoi compagni.

«Chi ha parlato?» gridai ancora nel vento che si alzava. Non ci fu suono di risposta, a parte lo sbatacchiare di bretelle contro la paravela.

Il kayak ruotò a destra, si raddrizzò, ruotò di nuovo. Mi girai verso sinistra, aspettandomi quasi di vedermi assalire da un altro mostruoso calamaro; vidi invece avvicinarsi qualcosa di infinitamente più maligno.

Mentre concentravo l’attenzione sulla creatura aliena a nord, da sud un cumulo nerastro e rigonfio mi aveva quasi circondato. Neri festoni sbrindellati dal vento turbinavano dalla nube di tempesta spinta dal calore e intorbidavano l’aria sotto di me come fiumi color ebano. Vedevo i fulmini che balenavano nell’abisso e i fulmini globulari che salivano, sputati dalla nera colonna della tempesta. Più vicino, molto più vicino, appesi al fiume di nuvole nere che scorreva sopra di me, si avvolgevano a spirale dieci o più trombe d’aria il cui imbuto saettava dalla mia parte come coda di scorpione. Ogni imbuto aveva le dimensioni del mostruoso calamaro o anche maggiori, chilometri verticali di turbinante follia, e generava il proprio grappolo di tornado più piccoli. In nessun modo la mia misera paravela avrebbe sopportato d’essere anche solo sfiorata da uno di quei vortici, ed era impossibile che i tornado mi mancassero.

Mi alzai nell’abitacolo che beccheggiava e rollava; non fui sbalzato via solo perché mi afferrai con la sinistra a una bretella. Strinsi a pugno la destra e l’agitai verso i tornado, verso la furiosa tempesta più in là, verso l’invisibile cielo più in alto. «Maledizione a voi, allora!» gridai. Le parole si persero nell’ululato del vento. Il giubbotto mi sbatacchiava addosso. Una raffica rischiò di scagliarmi nel maelstrom. Mi sporsi sullo scafo del kayak, mi ressi forte contro vento come un saltatore sugli sci che avevo visto una volta sull’Artiglio di ghiaccio in un momento di folle equilibrio prima dell’inevitabile discesa, agitai di nuovo il pugno e urlai: «Fate pure del vostro peggio, maledetti! Vi sfido!».

Come in risposta, una tromba d’aria sf avvicinò lateralmente e la punta inferiore del vortice colpì verso il basso, come se cercasse una superficie dura da distruggere. Mi mancò di un centinaio di metri, ma il vuoto provocato dal suo passaggio fece roteare kayak e paravela come una barchetta di carta risucchiata dallo scarico di una vasca da bagno. Non trovai più il contrasto del vento, caddi in avanti sullo scafo scivoloso e sarei finito nell’oblio se, muovendo la mano alla disperata ricerca di un appiglio, non fossi riuscito ad aggrapparmi a una bretella. In quel momento ero completamente fuori dell’abitacolo.

Una tempesta di grandine seguiva l’imbuto. Pallottole di ghiaccio, alcune grosse come il mio pugno, trapassarono la paravela, martellarono il kayak, col rumore di un nugolo di fléchettes che giungano a bersaglio, e mi colpirono alla gamba, alla spalla, alla parte bassa della schiena. Per il dolore rischiai di mollare la presa. Non che importasse molto, mi dissi, aggrappato al kayak che s’impennava e picchiava: la paravela infatti era lacerata in centinaia di punti. Solo quello schermo aveva impedito che la grandine mi riducesse a brandelli, ma ora il foglio a delta era ridotto a un crivello. Perdette portanza con la stessa rapidità con cui l’aveva acquistata all’inizio e il kayak cadde di punta verso le tenebre molte migliaia di chilometri più in basso. Le trombe d’aria riempirono il cielo intorno a me. Strinsi la bretella ormai inutile nel punto dove entrava nello scafo ammaccato e rimasi aggrappato, deciso a completare quell’unico atto, aggrapparmi, finché il kayak, la vela ammainata e io non saremmo stati schiacciati dalla pressione o lacerati dal vento. Mi resi conto di gridare di nuovo, ma il suono era diverso alle mie stesse orecchie, quasi allegro.