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Alzai il polso e parlai al comlog. «Dove diavolo mi trovo?»

Seguì una pausa e per un momento pensai che l’aggeggio si fosse rotto su Vitus-Gray-Balianus B. Poi giunse la risposta, nella voce dal tono borioso della nave. "Pianeta sconosciuto, signor Endymion. Ho alcuni dati, ma incompleti."

«Sentiamo.»

Seguì uno scoppiettante elenco di temperature in gradi Kelvin, pressione atmosferica in millibar, densità media stimata in grammi per centimetro cubico, probabile velocità di fuga in chilometri al secondo, campo magnetico rilevato in gauss e infine una sequela di gas atmosferici e di percentuale degli elementi.

«Velocità di fuga di cinque-quattro-virgola-due chilometri al secondo» ripetei. «Siamo nel campo dei giganti gassosi, no?»

"Senza alcun dubbio" disse la voce della nave. "La base di riferimento gioviana è cinque-nove-virgola-cinque chilometri al secondo."

«Ma l’atmosfera non è quella di un gigante gassoso, no?» Davanti a me uno stratocumulo cresceva come un olodocumentario sulla natura trasmesso a velocità accelerata. La torreggiante nuvola mi sovrastava di sicuro di dieci chilometri e la sua base spariva nelle profondità violacee. Ai piedi dello stratocumulo balenavano i fulmini. La luce del sole sul lato più lontano della nuvola pareva ricca e bassa: luce della sera.

"L’atmosfera non assomiglia a nessuna di quelle che ho in memoria" disse il comlog. "Anidride carbonica, etano, acetilene e altri idrocarburi, che violano i valori d’equilibrio di Solmev, possono essere facilmente spiegati con l’energia cinetica molecolare di tipo gioviano e con la radiazione solare che spezza le molecole di metano, per cui la presenza di anidride carbonica dà un risultato standard di metano e vapor d’acqua mescolati negli strati profondi dove la temperatura supera i 1200 gradi Kelvin, ma il livello di ossigeno e di azoto…"

«Ebbene?»

"Indica vita" concluse il comlog.

Girai la testa da tutte le parti e scrutai nuvole e cielo, come per timore che qualcuno si avvicinasse di soppiatto.

«Vita sulla superficie?»

"Questo è dubbio" replicò la voce della nave. "Se questo pianeta segue le norme di Giove/Whirl, la pressione a livello della cosiddetta superficie sarebbe appena sotto i sette milioni di atmosfere della Vecchia Terra, con una temperatura di venticinquemila gradi Kelvin."

«A quale altezza ci troviamo?»

"Questo è incerto. Ma con l’attuale pressione atmosferica di zero-virgola-sette-sei rispetto alla pressione standard della Vecchia Terra, in un normale pianeta gioviano stimerei che siamo sopra la troposfera e la tropopausa, cioè nei livelli più bassi della stratosfera."

«Non farebbe più freddo, a simile altezza? Sarebbe come trovarsi nello spazio esterno.»

"Non su un gigante gassoso" replicò il comlog, con l’insopportabile voce professionale della nave. "L’effetto serra crea uno strato d’inversione termale che riscalda gli strati della stratosfera fin quasi a temperature ottimali per l’uomo. Ma la differenza di alcune migliaia di metri potrebbe mostrare marcati incrementi o decrementi di temperatura."

«Di alcune migliaia di metri?» ripetei, piano. «Quanta aria c’è sopra di noi e sotto di noi?»

"Dato sconosciuto" disse di nuovo il comlog. "Ma l’estrapolazione suggerirebbe che il raggio equatoriale dal centro di questo pianeta alla sua atmosfera superiore sia approssimativamente di settantamila chilometri e che lo strato di ossigeno-azoto-anidride carbonica si estenda da tremila a ottomila chilometri, circa due terzi della distanza dall’ipotetico centro del pianeta."

«Uno strato da tremila a ottomila chilometri» ripetei scioccamente. «A una cinquantina di chilometri dalla superficie…»

"Approssimativamente" confermò il comlog. "Ma si dovrebbe notare che a pressioni vicine a quelle presenti nel nucleo, l’idrogeno molecolare diventa metallo…"

«Già» dissi. «Per il momento va bene così.» Avevo l’impressione che presto avrei vomitato dal fianco del kayak.

"Dovrei anche sottolineare che l’anomalia dell’interessante colorazione nel vicino stratocumulo suggerisce la presenza di mono o polisolfuri di ammonio, anche se ad altitudini apotroposferiche si penserebbe solo a cirri di ammoniaca, mentre le nubi di vero vapore acqueo si formerebbero solo a profondità di circa dieci atmosfere standard, a causa…"

«Va bene così» ripetei.

"Lo faccio notare soltanto per l’interessante paradosso atmosferico che coinvolge…"

«Chiudi il becco!»

Tramontato il sole, faceva freddo. Ma non dimenticherò mai quel tramonto.

In alto sopra di me, il cielo parzialmente visibile si era scurito nell’intenso turchese tipo Hyperion e poi.in viola scuro. Le nuvole tutt’intorno divennero più luminose, mentre il cielo sopra e sotto si scuriva. Le chiamo nuvole, ma questo termine generico non riesce certo a convogliare la grandiosità dello spettacolo che vedevo. Sono cresciuto su Hyperion, in un carrozzone di pastori nomadi in una brughiera priva d’alberi fra il gran mar Meridionale e l’altopiano punta d’Ala: conosco bene le nuvole.

Molto sopra di me, cirri piumosi e cirrocumuli sfrangiati riflettevano il crepuscolo in un guazzabuglio di colori pastello, morbidi rosa, sfumature violetto, controluce dorati. Era come se mi trovassi in un tempio con un alto soffitto rosato sostenuto da migliaia di colonne e di pilastri irregolari. Le colonne e i pilastri erano torreggianti montagne di cumuli e di cumulonembi, la cui base a forma di incudine scompariva nelle profondità sempre più buie centinaia o migliaia di chilometri sotto il mio penzolante kayak e la cui sommità arrotondata si gonfiava nei cirrostrati centinaia o migliaia di chilometri più in alto. Ogni colonna rifletteva la bassa e ricca luce che passava tra squarci fra le nubi molte migliaia di chilometri più a ovest e la luce pareva incendiare le nuvole come se fossero di materiale altamente infiammabile.

Mono o polisolfuri, aveva detto il comlog. Be’, di qualsiasi cosa fossero fatti, quei cumuli bronzei nella luce diffusa erano incendiati dal tramonto, con una luce rosso ruggine, brillanti striature cremisi, fasci color sangue che si dilungavano dalle masse principali come stendardi cremisi, venature rosa che intessevano il soffitto di cirri come muscoli sotto la pelle di un corpo vivente, masse accavallate di cumuli così bianchi da farmi battere le palpebre come abbacinato da una distesa di neve, cirri dorati e striati che si riversavano fuori dalle ribollenti torri dei cumulonembi come capelli biondi scostati dal vento da livide facce rivolte in alto. La luce divenne più forte, più vivida, così intensa da farmi lacrimare, e poi ancora più brillante. Grandi raggi quasi orizzontali di luce divina brillavano fra le colonne, qui ne illuminavano alcune, là ne mettevano in ombra altre, passando tra nubi di ghiaccio e bande di pioggia verticale, riversando centinaia di arcobaleni semplici e migliaia di arcobaleni multipli. Poi le ombre salirono dall’abisso neroviolaceo, oscurarono sempre più i cavalloni ancora turbinanti di cumuli e di nembi, si arrampicarono infine sugli alti cirri e gli increspati altocumuli; ma all’inizio le ombre, anziché grigiore o tenebra, portarono un’infinita tavolozza di sfumature: oro lucente che si offuscava in bronzo, bianco puro che diventava crema e poi seppia e ombra, cremisi dell’intensità del sangue appena versato che lentamente si scuriva nel rosso ruggine del sangue rappreso e poi svaniva in un autunnale rossiccio rugginoso. Lo scafo del kayak perdette il luccichio e la paravela sopra di me smise di riflettere la luce, mentre quel terminatore verticale mi superava e si allontanava. Lentamente le ombre strisciarono più in alto; erano trascorsi almeno trenta minuti, ma ero troppo affascinato per controllare sul comlog; quando raggiunsero il soffitto di cirri, fu come se qualcuno avesse smorzato tutte le luci del tempio.