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«Ah, bene» disse Solznykov, sollevato al pensiero che non avrebbe avuto a che fare con quei quattro scherzi di natura per più di un paio di minuti. «In questo caso, non possiamo aiutarvi. Vedete, lo spazioporto qui a Bombasino è l’unico funzionante su Vitus-Gray-Balianus B, ora che abbiamo chiuso quello di Keroa Tambat, a gestione indigena; inoltre, a parte qualche spaziale che finisce nelle nostre celle, l’immigrazione qui è inesistente. I locali sono tutti Spettroelica… e, be’, amano i colori, certo, ma un androide risalterebbe come… allora, colonnello?»

Il colonnello Vinara alzò gli occhi dalla ricerca sul database. «Né le immagini né i nomi hanno riscontri con i nostri dati, a parte un bollettino generale inviato tramite la Flotta della Pax, circa quattro anni e mezzo standard fa.» Lanciò un’occhiata interrogativa alle guardie nobili.

Nemes e gli altri lo guardarono senza fare commenti.

Il comandante Solznykov allargò le braccia. «Mi spiace. Nelle ultime due settimane locali siamo stati impegnati in un’importante esercitazione da me diretta, ma se fosse giunto qualcuno che si fosse adattato a queste descrizioni…»

«Signore» disse il colonnello Vinara «c’erano quei quattro spaziali che hanno disertato.»

"Maledizione!" pensò Solznykov. Si rivolse alle guardie nobili: «Quattro spaziali della Pax Mercatoria sono sbarcati illegalmente per non affrontare l’accusa di uso illecito di droghe. A quanto ricordo, erano tutti maschi sulla sessantina e…» si girò verso il colonnello Vinara, cercando di dirgli, con lo sguardo e il tono, di chiudere il maledetto becco «… e abbiamo trovato i loro cadaveri nel Big Greasy, non è vero, colonnello?»

«Tre cadaveri, signore» precisò il colonnello Vinara, refrattario ai segnali del suo comandante. Controllava di nuovo il database. «Un nostro skimmer è precipitato presso Keroa Tambat e la Sanità ha inviato… la dottoressa Abne Molina, a valle lungo il canale, in compagnia di un missionario, per prendersi cura dei feriti.»

«Che c’entra questa storia, colonnello?» scattò Solznykov, brusco. «Gli ufficiali qui presenti cercano una ragazzina, un trentenne e un androide.»

«Sì, signore» disse Vinara, sorpreso, alzando gli occhi dal comlog. «Ma la dottoressa Molina ha comunicato per radio di avere curato un extraplanetario ammalato a Chiusa Childe Lamonde. Abbiamo presunto che fosse il quarto spaziale…»

Rhadamanth Nemes mosse un passo avanti, con tale rapidità che il comandante Solznykov trasalì senza volerlo: nel rapido movimento della donna c’era qualcosa di non umano.

«Dove si trova Chiusa Childe Lamonde?» domandò Rhadamanth Nemes.

«È solo un villaggio lungo il canale, un’ottantina di chilometri a sud di qui» rispose Solznykov. Si girò verso il colonnello Vinara, come se fosse responsabile e colpevole di tutta quell’agitazione. «Quando ci spediscono il prigioniero?»

«Domani mattina, signore. Uno skimmer ambulanza ha in programma di raccogliere l’equipaggio precipitato a Keroa Tambat alle 06.00 e farà una fermata a…» Si interruppe, vedendo che le quattro guardie nobili giravano sui tacchi e si dirigevano alla porta.

Nemes rallentò quanto bastava per dire: «Comandante, sgombri uno spazio aereo fra qui e Chiusa Childe Lamonde. Prenderemo la navetta.»

«Ah, non è necessario!» disse il comandante, controllando lo schermo sulla scrivania. «Quello spaziale è sotto arresto e sarà consegnato… ehi!»

I quattro ufficiali della Guardia nobile erano già usciti dall’ufficio e attraversavano il tarmac. Solznykov si precipitò sul pianerottolo e gridò: «Qui le navette non hanno il permesso di operare nell’atmosfera se non per atterrare a Bombasino. Ehi! Manderemo uno skimmer. Ehi! Quasi certamente quello spaziale non è uno dei vostri… lo teniamo sotto custodia… ehi!»

I quattro non girarono la testa. Raggiunsero la nave, le ordinarono di morfizzare un ascensore e sparirono nello scafo. Sirene d’allarme risuonarono per la base e il personale corse a mettersi al riparo, mentre la pesante navetta decollava sui razzi direzionali, passava alla propulsione EM e accelerava verso sud, superando il perimetro dello spazioporto.

«Porcocristo fu Giuseppe» bestemmiò sibilando il comandante Solznykov.

«Prego, signore?» disse il colonnello Vinara.

Solznykov gli lanciò un’occhiata che avrebbe fuso il piombo. «Prepari subito due skimmer… no, facciamo tre. Una squadra di marines a bordo di ognuno. Questo è il nostro orticello e quei quattro anemici scassapalle di guardie nobili non ci devono buttare neanche una cartaccia, senza che glielo diciamo noi. Voglio che gli skimmer arrivino prima di loro e che quel fottuto spaziale sia preso in custodia… in nostra custodia… anche a costo di rompere il culo a ogni indigeno Spettroelica da qui a Chiusa Childe Lamonde. Capito, colonnello?»

Vinara riusciva solo a fissare il suo comandante.

«Scattare!» gridò il comandante Solznykov.

Il colonnello Vinara scattò.

10

Non dormii per tutta quella notte e il giorno seguente, torcendomi dal dolore, andando avanti e indietro dal letto al bagno, portando con me l’apparecchiatura per la flebo, sforzandomi dolorosamente di orinare e poi controllando il ridicolo filtro in cerca del calcolo renale che mi faceva morire. A un certo punto della tarda mattinata riuscii a espellere il calcolo.

Per un minuto non riuscii a crederci. Nell’ultima mezz’ora il tormento era diminuito, era solo l’eco del dolore alla schiena e all’inguine, ma mentre fissavo la pietruzza rossastra nel cono del filtro, un po’ più grossa di un granello di sabbia ma molto più piccola di un sassolino, non riuscivo a credere che proprio quella robetta mi avesse procurato tanta sofferenza per tutte quelle ore.

"Credici" disse Aenea. Si sedette sul bordo del lavandino e mi guardò rimettere a posto la giacca del pigiama. "Nella vita sono spesso le cose più piccole a causare la sofferenza più grande."

«Già» dissi. Capivo, vagamente, che Aenea non era lì… non avrei orinato davanti a nessuno e tanto meno davanti a lei. Fin dalla prima iniezione di ultramorfina avevo allucinazioni e vedevo Aenea.

"Complimenti" disse l’allucinazione Aenea. Il suo sorriso pareva abbastanza reale — quel modo di arricciare le labbra, un po’ birbante, un po’ stuzzicante, a cui ero abituato — e vedevo che indossava i jeans verdi e la blusa di cotone bianca che spesso portava quando lavorava nel caldo del deserto. Ma vedevo anche, attraverso di lei, il lavandino e i morbidi asciugamani.

«Grazie» dissi. Tornai, strisciando i piedi, nella stanza e mi lasciai cadere sul letto. Non potevo credere che il dolore non sarebbe tornato. A dire il vero, la dottoressa Molina aveva accennato al fatto che i calcoli potevano essere più d’uno.

Quando Dem Ria, Dem Loa e l’agente di polizia rimasto di guardia entrarono nella mia stanza, Aenea era scomparsa.

«Oh, è magnifico!» disse Dem Ria.

«Siamo così contente!» disse Dem Loa. «Speravamo tanto che non dovesse andare nell’ospedale della Pax per un intervento chirurgico.»

«Metti la destra qui sopra» disse l’agente. Mi ammanettò alla testiera d’ottone.

«Sono prigioniero?» domandai, intontito.

«Lo sei sempre stato» borbottò lui. Era bruno di pelle e aveva il viso sudato sotto il visore dell’elmetto. «Domani mattina verrà a prenderti lo skimmer. Non vorrei che ti perdessi la corsa.» Uscì e si andò a sedere all’ombra della magagnolia davanti alla casa.

«Ah» disse Dem Loa, toccandomi il polso ammanettato. Aveva dita piacevolmente fresche «Ci spiace, Raul Endymion.»

«Non è colpa vostra» le consolai; mi sentivo stanco e intontito dalla droga al punto da non riuscire a spiccicare bene le parole. «Siete state assolutamente gentili. Gentilissime.» Il dolore svaniva, ma non mi lasciava prendere sonno.

«Padre Clifton vorrebbe parlare con lei. Le va bene?»

In quel momento l’idea di fare conversazione con un prete missionario mi allettava come quella che dei ragnoratti mi rosicchiassero le dita dei piedi. «Certo» risposi. «Perché no?»