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Aprii bocca per parlare, esitai.

Rachel tornò seria. «Oh, capisco. Ti ha parlato dell’intervallo di un anno, undici mesi, sette giorni, sei ore?»

«Sì» risposi. «E del fatto che ha avuto…» Mi interruppi. Sarebbe stato sciocco restare sconvolto davanti a quella donna così forte. Non mi avrebbe mai più guardato allo stesso modo.

«Un figlio» terminò per me Rachel.

La guardai come se cercassi una risposta nei suoi bei lineamenti. «Aenea te ne ha parlato?» Avevo la sensazione di tradire in un certo senso la mia amica, cercando di avere da altri quella informazione. Ma non potevo fermarmi. «Sapevi a quel tempo…»

«Dove si trovava?» disse Rachel, ricambiando il mio intenso sguardo. «Che cosa le accadeva? Che si sposava?»

A ogni domanda potevo solo annuire.

«Sì» disse Rachel. «Lo sapevamo.»

«Eri lì con lei?»

Rachel parve esitare, come se soppesasse la risposta. «No» disse infine. «A. Bettik, Theo e io abbiamo aspettato quasi due anni il suo ritorno. Abbiamo portato avanti il suo… ministero pastorale? la sua missione?… qualsiasi cosa sia, l’abbiamo portata avanti mentre lei non c’era, impartendo alcune sue lezioni, trovando chi voleva partecipare alla comunione, facendo sapere quando lei sarebbe tornata.»

«Allora sapevi quando sarebbe tornata?»

«Sì» disse Rachel. «Il giorno esatto.»

«Come?»

«Era il giorno in cui doveva tornare. Aveva approfittato di ogni minuto possibile senza mettere a repentaglio la missione. La Pax ci dava la caccia, il giorno seguente ci avrebbero catturati tutti, se Aenea non fosse tornata e non ci avesse teleportato via.»

Annuii, ma non pensavo al fatto che Aenea era scampata per miracolo alla Pax. «Hai conosciuto… lui?» dissi, cercando senza successo di mantenere un tono neutro.

Rachel mantenne un’espressione seria. «Il padre di suo figlio, vuoi dire? Il marito di Aenea?»

Intuivo che Rachel non voleva mostrarsi crudele, ma le sue parole mi straziarono più degli artigli di Nemes. «Sì» risposi. «Lui.»

Rachel scosse la testa. «Quando Aenea se ne andò, nessuno di noi l’aveva mai incontrato.»

«Ma sai perché decise che fosse lui il padre di suo figlio?» insistetti. Mi sentivo come il Grande Inquisitore che ci eravamo lasciati alle spalle su T’ien Shan.

«Sì» disse Rachel, ricambiando lo sguardo, senza rivelarmi altro.

«Aveva a che fare con… con la sua missione?» Mi sentivo la gola sempre più stretta, la voce sempre più tesa. «Si tratta di qualcosa che lei deve fare… di qualche ragione per cui da loro doveva nascere un figlio? Non puoi dirmi qualcosa, Rachel?»

Allora lei mi prese per il polso, stringendo forte. «Raul, sai che Aenea ti spiegherà tutto, quando sarà il momento.»

Mi liberai e sbuffai con malagrazia. «Quando sarà il momento…» brontolai. «Cristo santo, questa frase mi dà la nausea. E non ne posso più di aspettare.»

Rachel si strinse nelle spalle. «Allora affronta Aenea. Minaccia di picchiarla, se non ti dice tutto. Hai massacrato di botte quella Nemes, Aenea non dovrebbe essere un problema.»

Le lanciai un’occhiataccia.

«Parlando seriamente, Raul, questa è una faccenda fra te ed Aenea. Posso solo dirti che sei l’unico uomo di cui lei abbia mai parlato e, per quanto ne so, l’unico che abbia mai amato.»

«Come diavolo fai a…» cominciai, furioso, ma mi costrinsi a chiudere la bocca. Le diedi goffamente dei colpetti sul braccio e il movimento iniziò a farmi girare sul mio asse. Non è facile stare vicino a qualcuno, a gravità zero, senza toccarlo. «Grazie, Rachel» conclusi.

«Sei pronto a vedere tutti gli altri?»

Inspirai a fondo. «Quasi. La superficie della capsula può diventare riflettente?»

«Capsula, luminosità novanta per cento» ordinò Rachel. «Alta riflessività interna.» A me disse: «Ti controlli allo specchio prima del grande appuntamento?».

La parete era diventata riflettente quasi quanto una pozza d’acqua cheta; non uno specchio perfetto, ma abbastanza chiara e luminosa da mostrarmi un Raul Endymion con cicatrici sul viso e la testa pelata, cuoio capelluto roseo come pelle di neonato, tracce di lividi e di gonfiori intorno agli occhi, magro, molto magro. Ossa e muscoli del viso e della parte superiore del corpo parevano abbozzati a tratti di carboncino. Gli occhi parevano diversi.

«Cristo santo» ripetei.

Rachel mi rivolse un gesto. «Il robochirurgo ti voleva trattenere ancora una settimana, ma Aenea non poteva aspettare. Le cicatrici non sono permanenti, la maggior parte, almeno. I medicinali che la capsula ti ha somministrato per endovena si prendono cura della rigenerazione. Fra un paio di settimane standard cominceranno a ricrescerti i capelli.»

Mi toccai il cuoio capelluto: era come accarezzare il sedere coperto di cicatrici e ipersensibile di un orrendo neonato. «Un paio di settimane» dissi. «Magnifico. Fottutamente magnifico.»

«Non prendertela. Secondo me, hai un aspetto interessante. Resterei così, se fossi in te, Raul. E poi, pare che Aenea abbia un debole per uomini più anziani di lei. E in questo momento sembri certo più anziano.»

«Oh, grazie» dissi, ironico.

«Non c’è di che» replicò Rachel. «Capsula, apri diaframma. Accesso allo stelo connettore pressurizzato principale.»

Scalciò per darsi la spinta e mi guidò fuori, varcando l’apertura a diaframma comparsa nella parete.

Appena entrai nella stanza, o capsula, Aenea mi abbracciò così forte da farmi meravigliare che le costole rotte non avessero ceduto di nuovo. Ricambiai l’abbraccio con altrettanta forza.

Il breve viaggio nello stelo connettore pressurizzato era stato abbastanza normale, se si considera normale essere proiettati lungo una tubatura flessibile, trasparente, del diametro di due metri, a una velocità che toccava secondo la mia stima i sessanta chilometri orari (si usavano correnti di ossigeno spinte a grande velocità in direzioni opposte per favorire i movimenti del nuoto nell’aria) mentre altre persone, quasi tutte magrissime, glabre e incredibilmente alte, ti saettavano accanto, senza rumore, in senso contrario, a 120 all’ora, e ti mancavano di centimetri. Poi c’erano state le capsule del mozzo, dove io e Rachel fummo spinti a grande velocità, come corpuscoli proiettati nei ventricoli e nelle auricole di un enorme cuore, e dove rotolammo, scalciammo ed evitammo altri viaggiatori a grande velocità, per poi uscire da una delle decine di altre aperture dello stelo connettore. Nel giro di qualche minuto mi ero perso, ma Rachel pareva conoscere la strada (mi mostrò che nel tessuto vegetale sopra ogni uscita erano impressi tenui colori) e ben presto ci trovammo in una capsula non molto più grande della mia, ma piena di armadietti, di zone per sedersi sfruttando fasce di lappolite, e di persone. Alcune — Aenea, A. Bettik, Theo, la Dorje Phamo e Lhomo Dondrub — le conoscevo bene; altre — il padre capitano de Soya, chiaramente rimesso in sesto e guarito dalle terribili ferite, con indosso calzoni neri da prete, tonaca e collare rigido; il sergente Gregorius nella tuta da combattimento delle guardie svizzere — le avevo incontrate di recente e le conoscevo di vista; altre ancora, come gli alti, magri, ascetici Ouster e gli incappucciati templari, erano meravigliose e insolite, ma rientravano pur sempre nel mio campo di comprensione; mentre due dei presenti, che Aenea mi presentò come il templare Vera Voce dell’Albero Het Masteen e l’ex colonnello della Force dell’Egemonia Fedmahn Kassad, mi erano noti per fama, ma non avrei mai pensato di incontrarli di persona. Più di Rachel o della madre di Aenea, Brawne Lamia, quei due, nonché personaggi usciti dai Canti del vecchio poeta, erano archetipi del mito, morti da secoli come minimo e probabilmente mai esistiti nel fisso, quotidiano, mangia-dormi-e-usa-il-bagno, firmamento delle cose.

E infine, in quella capsula Ouster a gravità zero, c’erano altre persone che non erano affatto persone, almeno dal mio punto di vista: gli esseri verde salice che Aenea mi presentò come LLeeoonn e OOeeaall, due dei pochi empatici Seneschai sopravvissuti, originari del pianeta Hebron, alieni e intelligenti. Guardai quelle bizzarre creature, pelle e occhi del più chiaro verde acerbo; corpi così sottili che avrei potuto circondare con le dita il torace; simmetrici come noi, con due gambe, due braccia, una testa, ma nient’affatto simili a noi; membra articolate come linee singole, continue, fluide, non frutto di evoluzione da ossa incernierate e cartilagini; dita palmate come zampe di rospo e testa più simile a quella di un feto umano che di un adulto. Le pupille erano poco più di puntini in ombra nel verde incarnato del volto.