— Grazie — dissi. Non avevo nessuna intenzione di lasciare la sfera prima che lei e A. Bettik fossero andati via dalla loggia. Ma loro rientrarono quasi subito e io nuotai, dimenando braccia e gambe nel forsennato tentativo di ruotare di 180 gradi prima che la gravità tornasse a farsi sentire; ruotai troppo, esagerai nel compensare il movimento e atterrai pesantemente sul fondo schiena.
Presi l’asciugamano che A. Bettik aveva coscienziosamente lasciato per me sulla balaustra, mi asciugai il viso e dissi: — Nave, puoi eliminare il microcampo g-zero.
L’attimo dopo m’accorsi dell’errore, ma non feci in tempo a modificare l’ordine: parecchie centinaia di litri d’acqua precipitarono sulla loggia: una pesante e gelida cascata da grande altezza. Se mi fossi trovato lì sotto, forse ci avrei lasciato la pelle (conclusione un poco ironica di una grande avventura), ma ero seduto a un paio di metri dal diluvio e perciò fui solo sbattuto contro la loggia, catturato dal vortice d’acqua che si riversava dalla balaustra e che minacciava di trascinarmi nello spazio e giù oltre la poppa della nave, quindici metri più in basso, fino in fondo alla bolla a forma d’ellissoide del campo di contenimento, dove avrei fatto la fine di un insetto annegato in un becher ovoidale.
Mi aggrappai alla balaustra e mantenni la presa finché il torrente non fu passato.
«Chiedo scusa» disse la nave, accorgendosi dell’errore e sagomando di nuovo il campo per contenere e raccogliere il diluvio. Notai che neppure una goccia era entrata nel livello della piazzola olografica.
Quando il microcampo portò via l’acqua in sfere sciaguattanti, presi l’asciugamano inzuppato e rientrai nella nave. Mentre lo scafo si chiudeva alle mie spalle e l’acqua presumibilmente veniva rimessa nei serbatoi per essere depurata a nostro uso o come massa di reazione, mi fermai di colpo.
— Nave! — esclamai.
«Sì, signor Endymion?»
— Non era la tua idea di uno scherzo, vero?
«Si riferisce al fatto che abbia ubbidito all’ordine di annullare il microcampo g-zero, signor Endymion?»
— Sì.
«Le conseguenze sono state semplicemente il risultato di una piccola trascuratezza, signor Endymion. Non faccio mai scherzi. Stia tranquillo, non ho il senso dell’umorismo.»
— Uhmmm — borbottai, non del tutto convinto. Portando con me le scarpe bagnate e i vestiti, sciaguattai al piano di sopra per asciugarmi e vestirmi.
Il giorno seguente andai a trovare A. Bettik in quella che lui chiamava la "sala motori". Il locale dava un po’ la sensazione della sala motori di una nave marittima (tubi caldi, vaghi ma ingombranti oggetti a forma di dinamo, passerelle e piattaforme metalliche), ma A. Bettik mi mostrò che lo scopo primario di quel locale era d’interfacciarsi con i motori della nave e con i generatori di campo per mezzo di vari connettori simili a quelli per lo stim-sim. Ammetto di non avere mai apprezzato le realtà generate da computer: sperimentai alcune vedute virtuali della nave, tolsi il collegamento e mi sedetti accanto all’amaca di A. Bettik per chiacchierare con lui. L’androide mi raccontò d’avere collaborato a tenere in ordine la nave per lunghi decenni e d’essersi a poco a poco convinto che non avrebbe mai più volato. Intuii il suo sollievo per il fatto che la nave fosse di nuovo in viaggio.
— Avevi già deciso d’accompagnare chiunque il vecchio poeta avesse scelto per andare con la bambina? — gli domandai.
L’androide mi guardò negli occhi. — Nell’ultimo secolo ho covato l’idea, signor Endymion. Ma raramente l’ho considerata una possibilità reale. La ringrazio per averla fatta realizzare.
Il suo tono esprimeva una gratitudine così sincera che per un momento rimasi imbarazzato. — Faresti meglio a non ringraziarmi finché non saremo sfuggiti alla Pax — dissi per cambiare discorso. — Immagino che ci aspetteranno nello spazio di Vettore Rinascimento.
— La riterrei un’ipotesi attendibile. — L’uomo dalla pelle azzurra non pareva particolarmente preoccupato per quella prospettiva.
— Credi che la minaccia di Aenea di depressurizzare la nave possa funzionare una seconda volta?
A. Bettik scosse la testa. — Vogliono catturare viva la bambina, ma non berranno il bluff un’altra volta.
Inarcai il sopracciglio. — Pensi davvero che bluffasse? Credevo che fosse pronta ad aprire al vuoto il nostro ponte.
— Ho i miei dubbi — disse A. Bettik. — Non conosco bene la signorina, ovviamente, ma ho avuto il piacere di trascorrere parecchi giorni in compagnia di sua madre e degli altri pellegrini, durante la traversata di Hyperion. La signora Lamia amava la vita e rispettava la vita altrui. Credo che la signorina Aenea avrebbe potuto attuare la minaccia, se fosse stata da sola, ma non credo che sia capace di nuocere volutamente a lei o a me.
A queste parole non trovai niente da dire, così parlammo d’altro… la nave, la nostra destinazione, i cambiamenti senza dubbio intervenuti nei mondi della Rete dopo tutto quel tempo dalla Caduta.
— Se atterriamo su Vettore Rinascimento — dissi — hai intenzione di lasciarci?
— Lasciarvi? — ripeté A. Bettik, mostrando sorpresa per la prima volta. — E perché dovrei lasciarvi?
Mossi la mano in un gesto d’impaccio. — Be’… immagino… voglio dire, ho sempre pensato che tu volessi la libertà e che l’avresti trovata nel primo mondo civile da noi toccato… — Lasciai perdere, per non fare ancora di più la figura dell’idiota.
— La libertà mi è giunta con la possibilità di partecipare a questo viaggio — disse piano l’androide. Sorrise. — E poi, signor Endymion, se volessi rimanere su Vettore Rinascimento, difficilmente potrei confondermi con la gente.
La battuta sollevò un argomento sul quale avevo cominciato a riflettere. — Potresti cambiare il colore della pelle — dissi. — Il robo-chirurgo della nave potrebbe farlo… — Lasciai perdere di nuovo; avevo notato nella sua espressione un sottile mutamento che non riuscivo a spiegarmi.
— Come lei sa, signor Endymion — cominciò A. Bettik — noi androidi non siamo programmati come macchine… non abbiamo neppure i basilari parametri e gli asimotivatori delle prime Intelligenze Artificiali DNA che si evolsero nelle intelligenze del Nucleo. Però è vero che alcune inibizioni furono… ah… fortemente impresse in noi, al momento di progettare i nostri istinti. Una, ovviamente, riguarda l’ubbidienza agli esseri umani ogni qual volta sia ragionevole e la loro salvaguardia. Questo asimotivatore, per quanto ne so, è più antico della robotica e della bioingegneria. Ma un altro… istinto… m’impedisce di cambiare il colore della pelle.
— Non puoi cambiarlo? Non potresti cambiarlo nemmeno se la nostra vita dipendesse dal fatto che tu nasconda la tua pelle azzurra?
— Oh, sì, ho anch’io il libero arbitrio — disse A. Bettik. — Potrei farlo, soprattutto se l’azione fosse in armonia con asimotivazioni di massima priorità, come salvaguardare lei e la signorina Aenea; ma la decisione mi… metterebbe a disagio. Molto a disagio.
Annuii, ma in realtà non lo capivo appieno. Parlammo di altre cose.
In quello stesso giorno feci l’inventario del contenuto degli armadi per le armi e per le attrezzature d’attività extraveicolare, posti nel ponte principale. C’era più di quanto non avessi pensato durante la prima ispezione, ma alcuni oggetti erano così antiquati che fui costretto a domandare alla nave a che cosa servissero. Le attrezzature nell’armadio AEV erano abbastanza ovvie: tute spaziali e tute per atmosfere a rischio, quattro aerociclette ben piegate nelle nicchie di magazzinaggio sotto l’armadio delle tute, robuste lampade a mano, attrezzatura da campeggio, maschere osmotiche e autorespiratori subacquei con pinne e fucili, una cintura a propulsione EM, tre cassette di utensili, due medipac ben attrezzati, sei serie di occhiali a visione notturna e a raggi infrarossi, un numero uguale di cuffie leggere con ricetrasmettitori a goccia e videocamera, e vari comlog. I comlog m’indussero a chiedere spiegazioni alla nave: in un mondo senza sfera dati, come quello dov’ero cresciuto, non se ne faceva molto uso. I comlog andavano dal tipo antiquato (la sottile banda d’argento tipo bigiotteria che era molto in voga vari decenni fa) a quello antidiluviano: massicci congegni formato piccolo libro. Tutti potevano essere usati come ricetrasmettitori, potevano immagazzinare una grande quantità di dati, accedere alla locale sfera dati e, soprattutto i più vecchi, agganciarsi tramite telecomando ai relè astrotel planetari, in modo da avere accesso alla megasfera.