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Aenea non parve granché preoccupata. I giorni trascorsero e noi ci abbandonammo alla comoda, anche se un po’ oppressiva, routine di bordo: dopo cena Aenea suonava il piano, tutt’e tre frugavamo la biblioteca, controllavamo gli olofilm e i libri di bordo in cerca di qualche indizio riguardante dove la nave avesse portato il Console (c’erano diversi indizi, nessuno dei quali definitivo), giocavamo a carte di sera (Aenea era davvero un formidabile giocatore di poker) e di tanto in tanto facevamo esercizi fisici, per i quali chiedevo alla nave di stabilire a 1,3 g il campo di contenimento nel pozzo delle scale, correndo tre quarti d’ora su e giù per la scala a chiocciola alta come sei piani. Non so che cosa quell’esercizio mi facesse al resto del corpo, ma i polpacci, le cosce e le caviglie in breve parvero appartenere a un elefantoide d’un pianeta tipo Giove.

Quando si rese conto che il campo poteva essere modificato su misura anche limitandolo a piccole sezioni della nave, Aenea diventò incontrollabile. Cominciò a dormire in una bolla a gravità zero nel ponte di crio-fuga. Scoprì che il tavolo nella biblioteca poteva essere mutato in tavolo da biliardo e pretese di fare almeno due partite al giorno… ogni volta sotto un diverso carico gravitazionale. Una sera, mentre leggevo nel ponte di navigazione, udii un rumore, scesi nel ponte della piazzola olografica e scoprii che lo scafo aveva un’apertura a iride, che la loggia era all’esterno, ma senza il pianoforte, e che una gigantesca sfera d’acqua, forse di otto o dieci metri di diametro, galleggiava fra la balaustra e il campo di contenimento esterno.

— Che diavolo! — esclamai.

— È uno spasso! — disse una voce dall’interno della bolla pulsante d’acqua in movimento. Una testa dai capelli bagnati sbucò in superficie, penzolando capovolta a due metri dal pavimento della loggia. — Vieni dentro! L’acqua è calda.

Mi scostai da quell’apparizione, appoggiandomi alla balaustra e cercando di non pensare a che cosa sarebbe accaduto se per un secondo il campo localizzato della bolla fosse venuto a mancare.

— A. Bettik l’ha visto? — dissi.

Aenea si strinse nelle spalle. I pirotecnici frattali pulsavano e si ripiegavano al di là della loggia, lanciando sulla sfera d’acqua colori e riflessi incredibili. La sfera stessa era una grande bolla azzurra con chiazze più chiare sulla superficie e all’interno, dove si muovevano bolle d’aria. Mi ricordava le fotografie della Vecchia Terra.

Aenea ritrasse la testa, divenne una sagoma sbiadita che per un momento agitò i piedi nell’acqua, riemerse cinque metri più su lungo la curvatura. Gocce d’acqua schizzarono in libertà e ricaddero sulla sfera (a càusa del differenziale dei campi, immaginai) spiaccicandosi e formando complessi cerchi concentrici che incresparono la superficie del globo d’acqua.

— Vieni dentro — ripeté Aenea. — Dico sul serio!

— Non ho il costume da bagno.

Aenea galleggiò un secondo, si girò sullo stomaco, si tuffò di nuovo. Quando riemerse, a testa in giù rispetto al mio punto di vista, disse: — E chi ce l’ha, il costume? Non ti serve!

Sapevo che non scherzava, perché durante il tuffo avevo visto le sue vertebre risaltare sotto la chiara pelle della schiena e le sue natiche ancora da bambina riflettere la luce dei frattali come due piccoli funghi che sporgessero da uno stagno. Tutto sommato, dal punto di vista sessuale lo spettacolo del posteriore della dodicenne nostro futuro messia era eccitante quasi quanto la proiezione delle diapositive dei nuovi pronipoti di zia Merth nella vasca da bagno.

— Vieni dentro, Raul! — disse di nuovo Aenea e si tuffò verso la parte opposta della sfera.

Esitai solo un secondo, prima di togliermi la veste da camera. Tenni non solo gli slip, ma anche la lunga maglietta che spesso usavo come pigiama.

Per un momento rimasi sulla loggia, senza la minima idea di come entrare nella sfera alcuni metri più in alto. Poi udii la voce di Aenea giungere da qualche parte lungo l’arco superiore della bolla. — Salta, tonto!

Saltai. La transizione a g-zero iniziò circa un metro e mezzo più in alto. L’acqua era maledettamente fredda.

Girai su me stesso, mandai un grido per il freddo, sentii contrarsi ogni parte del corpo in grado di contrarsi e cominciai a dibattermi nel tentativo di tenere fuori la testa. Non fui sorpreso, quando A. Bettik uscì sulla loggia per vedere che cos’era tutto quel trambusto. L’androide incrociò le braccia e si appoggiò alla balaustra, accavallando i piedi.

— L’acqua è calda! — mentii, battendo i denti. — Vieni dentro!

L’androide sorrise e scosse la testa come un genitore paziente. Scrollai le spalle, girai su me stesso e mi tuffai.

Impiegai un paio di secondi a ricordare che il nuoto è molto simile al movimento in gravità zero e che quindi galleggiare a g-zero è molto simile a nuotare normalmente. Comunque la resistenza dell’acqua rendeva l’esperienza più simile al nuoto che al movimento in assenza di gravità, anche se c’era il divertimento aggiuntivo d’incontrare nella sfera una bolla d’aria e di fermarsi a tirare una boccata, prima di riprendere a nuotare sott’acqua.

Dopo qualche istante di capriole dovute al disorientamento, giunsi dentro una bolla larga un metro, mi fermai prima di ruzzolare nella sfera e guardai sopra di me, dove emergevano la testa e le spalle di Aenea. La bambina mi guardò dall’alto e agitò la mano. Sul petto nudo aveva la pelle d’oca, o per l’acqua fredda o per l’aria ancora più fredda.

— Uno spasso, eh? — disse, scrollandosi acqua dal viso e spingendo indietro i capelli. Bagnati, parevano d’un castano più scuro. Guardai la bambina e cercai di scorgere in lei la madre, l’investigatrice lusiana dai capelli neri. Inutile: non avevo mai visto un’immagine di Brawne Lamia, avevo solo sentito come la descriveva il poeta nei Canti.

— La parte più difficile è non volare fuori dell’acqua quando ci si avvicina al bordo — disse Aenea, mentre la bolla si spostava e si contraeva e la parete d’acqua s’incurvava intorno a noi e sopra di noi. — Vediamo chi arriva prima fuori!

Ruotò su se stessa e scalciò; cercai di seguirla, ma feci l’errore di battere le braccia attraverso la bolla d’aria (oddio, spero che né A. Bettik né la bambina abbiano visto il patetico movimento convulso delle braccia e delle gambe!) e arrivai al bordo della sfera mezzo minuto dopo di lei. Lì camminammo sull’acqua; la nave e la loggia erano fuori vista sotto di noi, la superficie della sfera s’incurvava a sinistra e a destra, spariva come cascata da tutti i lati, mentre in alto i frattali si espandevano, esplodevano, si contraevano, si espandevano di nuovo.

— Peccato non poter vedere le stelle — dissi e mi accorsi con sorpresa d’avere parlato ad alta voce.

— Vorrei vederle anch’io — disse Aenea. Aveva il viso rivolto allo sconvolgente spettacolo luminoso e credetti di scorgervi per un attimo un’ombra di tristezza. — Ho freddo — disse alla fine Aenea. Ora serrava le mascelle per impedire ai denti di battere. — La prossima volta ricorderò alla nave di non usare acqua fredda per la piscina.

— Faresti meglio a uscire — dissi. Nuotammo verso il basso e intorno alla curvatura. La loggia parve una parete che si ergesse ad accoglierci, ma aveva un’anomalia: la figura di A. Bettik, in piedi trasversalmente, pronta a porgere a Aenea un grande asciugamano.

— Chiudi gli occhi — disse lei. Chiusi gli occhi e sentii i pesanti goccioloni degli schizzi a g-zero colpirmi il viso, mentre Aenea muoveva le braccia sulla superficie di tensione e galleggiava fuori della sfera. Un attimo dopo udii il tonfo di piedi scalzi sul pavimento della loggia.

Aspettai ancora qualche secondo e aprii gli occhi. A. Bettik aveva avvolto Aenea nel voluminoso asciugamano e lei vi si era rannicchiata: ora batteva i denti e non riusciva a trattenersi. — F-f-fai attenzione — disse. — R-r-r-uota appena e-e-esci dall’acqua, s-s-se no c-c-cadi di t-t-testa e ti r-r-rompi il c-c-collo.