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Raggiunto l’edificio dove abitava, parcheggiò, percorse il vialetto e i gradini di legno e fu davanti alla sua porta. I cardellini e i picchiotti appollaiati sul beccatoio non lo degnarono di un’occhiata. Entrò in casa. Bagnò la pianta e si domandò se mettere il vino in frigorifero.

Mancava ancora un sacco di tempo alle sei.

Shadow si rammaricò di non poter più guardare la televisione. Voleva essere intrattenuto senza pensare, voleva stare seduto e lasciarsi invadere da suoni e luci. Ehi, ti va di vedere le tette di Lucy? sussurrò nel ricordo una voce simile a quella dell’attrice; scosse la testa per dire di no, anche se non c’era nessuno a vederlo.

Si rese conto di essere nervoso. Quell’invito era la prima vera occasione sociale — con persone normali, non carcerati o dèi o eroi prodotti da chissà quale cultura o quale sogno — dal giorno del suo arresto, più di tre anni prima. Avrebbe dovuto fare conversazione nei panni di Mike Ainsel.

Guardò l’ora. Le due e mezzo. Marguerite Olsen gli aveva detto di presentarsi alle sei. Intendeva proprio le sei in punto? Oppure qualche minuto prima? O dopo? Alla fine decise che avrebbe suonato alla porta alle sei e cinque.

Squillò il telefono.

«Cosa c’è?» disse.

«Ti pare il modo di rispondere al telefono?» grugnì Wednesday.

«Quando il telefono sarà allacciato risponderò come si deve. Hai bisogno?»

«Non so.» Seguì una pausa, poi Wednesday disse: «Organizzare gli dèi è come mettere in fila un branco di gatti. Non ci sono portato». C’erano nella sua voce una rassegnazione e un senso di sfinimento che Shadow percepiva per la prima volta.

«C’è qualcosa che non va?»

«È dura. Troppo dura. Non so se funzionerà. Forse faremmo prima a tagliarci la gola. A tagliarcela e farla finita.»

«Non devi dire così.»

«Già. Hai ragione.»

«E se anche ti tagliassi la gola» disse Shadow nel tentativo di rallegrarlo, «probabilmente non sentiresti neanche male.»

«Farebbe male eccome. Il dolore è dolore anche per quelli come me. Se ti muovi e agisci nel mondo materiale il mondo materiale agisce su di te. Il dolore ti fa soffrire, esattamente come l’avidità intossica e la lussuria brucia. Magari non moriamo facilmente ed è più che certo che moriamo male, comunque moriamo. Se siamo ancora amati e ricordati qualcosa che ci assomiglia parecchio prende il nostro posto e tutta la stramaledetta storia ricomincia daccapo. Se veniamo dimenticati siamo finiti.»

Shadow non sapeva che cosa dire, perciò chiese: «Da dove telefoni?».

«Fatti i cazzi tuoi.»

«Sei ubriaco?»

«Non ancora. Continuo a pensare a Thor. Tu non l’hai conosciuto, Thor. Un omone grande e grosso come te. Cuore d’oro. Non troppo svelto di cervello ma capace di levarsi la camicia per dartela. E si è ucciso. Si è messo la canna di una pistola in bocca e nel 1932, a Philadelphia, si è fatto saltare le cervella. Che razza di modo di morire sarebbe, per un dio?»

«Mi dispiace.»

«Non te ne fotte niente, figliolo. Ti somigliava un casino. Grande e fesso.» Wednesday smise di parlare e tossì.

«C’è qualcosa che non va?» domandò Shadow per la seconda volta.

«Si sono messi in contatto.»

«Chi?»

«L’opposizione.»

«E allora?»

«Vogliono discutere i termini di una tregua. Fare un trattato di pace. Vivi e lascia vivere.»

«Allora che cosa succede, adesso?»

«Adesso vado a bere uno schifoso caffè con quelle teste di cazzo moderne nella Kansas City Masonic Hall.»

«Va bene. Vieni a prendermi tu o ti raggiungo io da qualche parte?»

«Tu resta dove sei e cerca di non dare nell’occhio. Non metterti nei guai. Mi hai capito?»

«Ma…»

Seguì un clic, e il collegamento si interruppe. Non c’era la linea, ma, del resto, non c’era mai stata.

Restava solo da far passare il tempo. Siccome la telefonata gli aveva lasciato un senso di inquietudine, Shadow si alzò con l’idea di andare a fare una passeggiata, ma la luce stava già morendo, quindi tornò a sedersi.

Prese il Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884 e cominciò a sfogliarlo sforzandosi di decifrare il minuscolo carattere di stampa, senza leggere davvero, fermandosi solo qui e là quando qualcosa attirava la sua attenzione.

Apprese che nel luglio del 1874 il consiglio comunale era preoccupato per il numero di taglialegna itineranti che stavano arrivando in città. All’angolo tra la Terza Strada e Broadway doveva sorgere un teatro d’opera. Si prevedeva che le proteste scatenate dal progetto di costruzione della diga sul Mill Creek sarebbero cessate, una volta trasformato il bacino in lago. L’amministrazione autorizzò il pagamento di settanta dollari al signor Samuel Samuels, e di ottantacinque dollari al signor Heikki Salminen, per la cessione della terra e le spese di trasferimento dei loro domicili lontano dalla zona da inondare.

A Shadow non era mai venuto in mente che il lago fosse artificiale. Perché chiamare una città Lakeside se tutto era cominciato con una fetente gora? Continuando a leggere scoprì che responsabile del progetto di realizzazione del bacino era stato un certo Hinzelmann, originario di Hùdemuhlen, in Baviera, e che l’amministrazione comunale gli aveva concesso fondi per trecentosettanta dollari, con l’accordo che in caso di superamento del tetto massimo si sarebbe ricorsi a una sottoscrizione pubblica. Shadow strappò un pezzetto di carta da un tovagliolo e lo infilò nel libro. Immaginava già la faccia di Hinzelmann quando avrebbe visto il riferimento al nonno. Si chiese se il vecchio fosse al corrente del fatto che la sua famiglia era stata determinante per la creazione del lago. Sfogliò altre pagine in cerca di riferimenti al progetto.

La cerimonia di inaugurazione si era svolta nella primavera del 1876, come apertura dei festeggiamenti per il centenario della fondazione della città. L’amministrazione aveva espresso a Hinzelmann i ringraziamenti della cittadinanza.

Shadow guardò l’ora. Le cinque e mezzo. Andò in bagno, si fece la barba, si pettinò. Si cambiò. In un modo o nell’altro passò anche l’ultimo quarto d’ora. Afferrò la bottiglia e la pianta e si diresse dalla vicina.

La porta si aprì subito. Marguerite Olsen sembrava nervosa quanto lui. Prese la bottiglia di vino e il vaso e ringraziò. Il televisore era acceso, con una videocassetta del Mago di Oz. Era ancora nella fase color seppia, quando Dorothy è in Kansas, e siede a occhi chiusi nel carrozzone del professor Marvel mentre il vecchio imbroglione finge di leggere i suoi pensieri, e il vento che di lì a poco l’avrebbe strappata dalle sue abitudini si sta avvicinando. Leon, seduto davanti allo schermo, giocava con un’autocisterna dei pompieri. Vedendo Shadow si illuminò, tutto felice, si alzò e, inciampando per l’eccitazione, corse in camera sua, riemergendo subito dopo trionfante con una moneta da un quarto di dollaro.

«Guarda, Mike Ainsel!» gridò. Congiunse le mani e finse di prendere la moneta nella destra, spalancata. «L’ho fatta scomparire, Mike Ainsel!»

«È vero» ammise Shadow. «Dopo cena, se la mamma è d’accordo, ti faccio vedere come eseguire il trucco in un modo più naturale.»

«Fatelo pure adesso» disse Marguerite, «visto che dobbiamo aspettare Samantha. L’ho mandata a comprare un po’ di panna acida. Non so perché ci metta tanto.»

E come se quella battuta fosse stata il segnale per l’entrata in scena di Samantha, sul portico risuonarono dei passi e la porta venne spalancata con una spallata. Shadow non la riconobbe subito, poi lei disse: «Non sapevo se volevi il tipo con le calorie o quella che sa di colla per tappezzieri perciò ho preso quella con le calorie» e lui la riconobbe: era la ragazza a cui aveva dato un passaggio sulla strada per Cairo.

«Hai fatto bene» disse Marguerite. «Sam, questo è il nostro nuovo vicino, Mike Ainsel. Mike, questa è mia sorella Samantha Black Crow.»

Io non ti conosco, pensò Shadow con disperazione. Tu non mi hai mai visto. Siamo due perfetti estranei. Si sforzò di ricordare come aveva fatto a concentrarsi sulla neve, com’era stato facile: adesso la situazione era disperata. Tese la mano e disse: «Molto piacere».