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Che brutta piega ha preso questa conversazione, pensò lui. Che brutta piega ha preso tutto quanto.

«Io ti amo» disse lei in tono distaccato. «Tu sei il mio cucciolo. Ma da morti si vedono le cose con più chiarezza. È come se tu non ci fossi, capisci? Sei come un grosso, solido buco a forma di uomo.» Aggrottò le sopracciglia. «Anche quando stavamo insieme. Mi piaceva stare con te. Tu mi adoravi e avresti fatto qualsiasi cosa per me. Però a volte mi capitava di entrare in una stanza credendo che fosse vuota. Accendevo la luce, la spegnevo, e mi rendevo conto che tu eri lì seduto; non leggevi, non guardavi la tv, non facevi niente.»

A quel punto lo abbracciò, come per mitigare l’asprezza delle proprie parole, e aggiunse: «La cosa più bella di Robbie è che lui era vero. Uno stronzo, a volte, oppure divertente, e quando facevamo l’amore gli piaceva avere gli specchi intorno perché così poteva vedersi mentre mi scopava, ma era vivo, cucciolo. Voleva veramente le cose. Riempiva lo spazio». Si interruppe e lo guardò piegando leggermente la testa. «Scusa. Ti ho ferito?»

Siccome la voce avrebbe potuto tradirlo, Shadow si limitò a fare segno di no con la testa.

«Bene» disse lei. «Molto bene.»

Stavano arrivando alla piazzola di sosta dove aveva parcheggiato la macchina. A Shadow sembrava che a quel punto fosse necessario dire qualcosa: Ti amo, oppure non andartene, ti prego, oppure ancora mi dispiace. Il tipo di frase che si usa per rappezzare una conversazione che imprevedibilmente è scivolata in zone buie. Invece disse: «Io non sono morto».

«Forse no» rispose lei. «Ma sei sicuro di essere vivo?»

«Guardami.»

«Questa non è una risposta» ribatté la sua defunta moglie. «Quando sarai vivo lo capirai.»

«E adesso?»

«Be’, ti ho rivisto. Adesso torno a sud.»

«In Texas?»

«In qualche posto caldo. Non mi interessa quale.»

«Io devo stare qui ad aspettare. Fino a quando il mio capo non mi chiama.»

«Questa non è vita» disse Laura. Sospirò, e poi sorrise, quel sorriso che dopo mille volte riusciva a commuoverlo ancora. Come se ogni volta fosse la prima.

Si avvicinò per stringerla a sé ma lei scosse la testa e si sottrasse all’abbraccio. Seduta sull’angolo di un tavolo da picnic coperto di neve rimase a guardarlo allontanarsi in macchina.

Interludio

Era cominciata la guerra e non se ne accorgeva nessuno. La tempesta era vicina e nessuno se ne rendeva conto.

A Manhattan la caduta di una trave provocò la chiusura di una strada per due giorni: uccise due pedoni, un tassista arabo e il suo passeggero.

Un camionista di Denver fu trovato ucciso in casa. Il corpo contundente, un martello a granchio con l’impugnatura in plastica, era stato abbandonato sul pavimento accanto al cadavere. Il volto non era stato toccato ma il cranio era sfondato e sullo specchio del bagno qualcuno aveva scritto con un rossetto scuro alcune parole in un alfabeto sconosciuto.

In un ufficio di smistamento della corrispondenza di Phoenix, in Arizona, un uomo impazzì, diede i numeri, come dissero al telegiornale quella sera, e sparò a Terry "Il Troll" Evensen, uno strano individuo morbosamente obeso che viveva da solo in una roulotte. I feriti erano stati parecchi ma rimase ucciso soltanto Evensen. L’omicida — un dipendente delle poste insoddisfatto, si pensò a tutta prima — non fu né catturato né, tantomeno, identificato.

«Onestamente» dichiarò il direttore dell’ufficio di Terry "Il Troll" Evensen, al telegiornale delle cinque, «tutti immaginavano che sarebbe stato proprio il Troll a dare i numeri per primo. Bravo lavoratore, ma uno strano tipo. Non si può mai dire nella vita, eh?»

Più tardi la sera, quando rimandarono in onda il servizio, l’intervista al direttore dell’ufficio postale fu tagliata.

In Montana vennero trovati morti i nove membri di una comunità dì anacoreti. I giornalisti avanzarono l’ipotesi che si fosse trattato di un suicidio collettivo, ma presto si seppe che la causa del decesso era imputabile all’avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una vecchia caldaia.

Nel cimitero di Key West venne profanata una cripta.

In Idaho un treno passeggeri della Amtrak si scontrò con un camion della Ups e il conducente del camion rimase ucciso. I passeggeri del treno riportarono soltanto ferite lievi.

A questo stadio era ancora una guerra fredda, una guerra per finta, dove non c’era in gioco niente di davvero importante.

Il vento scuoteva i rami dell’albero. Le fiamme sprigionavano scintille. La tempesta stava arrivando.

La regina di Saba, mezzo demone, si diceva, per parte di padre, la maga, strega e regina che governò su Saba quando Saba era la terra più ricca mai esistita al mondo, con le sue spezie e le gemme e i legni profumati trasportati via nave e a dorso di cammello in ogni angolo della terra, colei che in vita veniva adorata come una divinità, venerata come una dea dai più saggi tra i re, alle due di notte guarda il traffico senza vederlo dal marciapiede di Sunset Boulevard: una sposa di plastica vestita da puttana su una torta nuziale nera e fluorescente. È in piedi, padrona del marciapiede e della notte che l’avvolge.

Quando qualcuno la guarda muove le labbra come se parlasse da sola. Quando gli uomini in macchina le passano vicino stabilisce un contatto d’occhi e sorride.

È stata una lunga notte.

È stata una lunga settimana, e quattromila lunghi anni.

È fiera di non dovere niente a nessuno. Le altre ragazze che battono il marciapiede hanno protettori, abitudini, figli, gente che le sfrutta. Lei no.

Nel mestiere che fa non c’è niente di sacro. Non più.

Una settimana prima a Los Angeles sono cominciate le piogge che hanno trasformato le strade in trappole scivolose e teatri di incidenti, sciogliendo il fango sulle colline e trascinando le case nei canyon, il mondo nelle fogne e nei tombini, facendo annegare i barboni e i senza tetto nel canale. Quando a Los Angeles arrivano le piogge colgono sempre tutti di sorpresa.

Bilqis ha passato tutta la settimana in casa. Non potendo stare sul marciapiede si è rannicchiata sul letto nella stanza color fegato crudo ad ascoltare la pioggia battere sulla scatola di metallo del condizionatore e inviando messaggi personali in rete. Ha lasciato i suoi inviti a adultfinder.com, LA-escorts.com, Classyhollywoodbabes.com, con un anonimo indirizzo e-mail. È orgogliosa di saper esplorare nuovi territori, ma allo stesso tempo inquieta: ha sempre evitato di lasciare qualsiasi cosa possa assomigliare a un indizio. Non si è mai fatta pubblicità sulle ultime pagine del "L.A. Weekly", preferendo invece scegliersi i clienti da sola dopo aver visto, annusato e toccato quelli capaci di adorarla come serve a lei, quelli che si lasceranno portare fino in fondo…

E adesso, mentre rabbrividisce all’angolo della strada (poiché le piogge di fine febbraio sono finite, ma il freddo che hanno portato perdura) le viene in mente che in fondo anche lei ha un vizio, come le puttane che si fanno di eroina o di crack, e la cosa la rattrista e ricomincia a muovere le labbra. Se si fosse abbastanza vicini alla sua bocca dipinta di rosso rubino si sentirebbero queste parole:

«Ora mi leverò e andrò attorno per la città, per le strade e le piazze; cercherò colui che l’anima mia ama». E questo che mormora, e aggiunge: «Sul mio letto, durante la notte, ho cercato colui che l’anima mia ama. Mi baci egli dei baci della sua bocca. Il mio amico è mio e io son sua».

Bilqis spera che la fine delle piogge riporti i clienti. In genere batte lungo due o tre isolati del Sunset Boulevard e si gode l’aria fresca delle notti losangeline. Una volta al mese dà una bustarella all’agente di polizia che ha preso il posto di quello a cui la dava prima, sparito nel nulla. Si chiamava Jerry LeBec e la sua scomparsa rappresenta ancora un mistero per la polizia. Lei era diventata la sua ossessione, la seguiva ovunque. Un pomeriggio Bilqis era stata svegliata da un rumore e aprendo la porta di casa aveva trovato Jerry LeBec in borghese, che si dondolava in ginocchio sul vecchio zerbino, la testa china, aspettando di vederla uscire. Il rumore che l’aveva svegliata era provocato della testa del poliziotto che batteva contro la porta mentre dondolava avanti e indietro.