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«Da dove venite?» chiese la donna.

«Siamo andati a trovare un amico» rispose Wednesday.

«Che vive sulla collina qui dietro» aggiunse Shadow.

«Quale collina?»

Shadow si girò a guardare dal polveroso parabrezza posteriore. Non c’era nessuna collina, soltanto la pianura coperta di nuvole.

«Whiskey Jack» continuò allora Shadow.

«Ah, qui lo chiamiamo Inktomi. Credo che sia lui. Mio nonno raccontava delle belle storielle sul suo conto. Le migliori erano spinte, ovvio.» Presero una buca e la donna imprecò. «Tutto a posto, lì dietro?»

«Sissignora» rispose John Chapman. Si teneva aggrappato al sedile con tutte e due le mani.

«Sono le strade della riserva» disse lei. «Ci si fa l’abitudine.»

«Sono tutte così?» domandò Shadow.

«Più o meno. Quelle qui intorno sono così. E non venire a chiedermi che fine fanno tutti i soldi che guadagnano i casinò, perché quale persona sana di mente verrebbe fin qui per andare in un casinò? Di quei soldi noi non sentiamo nemmeno l’odore.»

«Mi dispiace.»

«Non è il caso.» Cambiò marcia con una grattata e un gemito. «Sapete che la popolazione bianca della zona continua a diminuire? Ormai ci sono solo città fantasma. Come si fa a tenerli qui a lavorare nei campi dopo che hanno visto il mondo alla televisione? E comunque coltivare le Badlands non rende. Perciò prima ci hanno portato via la terra e si sono insediati dove stavamo noi, e adesso se ne vanno. Vanno a sud. A ovest. Magari se aspettiamo che si trasferiscano tutti a New York o a Miami e Los Angeles ci possiamo riprendere le terre senza muovere un dito.»

«Buona fortuna» disse Shadow.

Trovarono Harry Bluejay nella sala giochi, al tavolo del biliardo, impegnato in qualche tiro spettacolare per far colpo sulle ragazze. Aveva una ghiandaia azzurra tatuata sul dorso della mano destra e molti piercing all’orecchio destro.

«Ho hoka, Harry Bluejay» salutò John Chapman.

«Vaffanculo, brutto spettro bianco e scalzo» rispose Harry Bluejay in tono colloquiale. «Quando ti vedo mi viene la pelle d’oca.»

In fondo alla sala c’erano uomini più anziani di Harry che giocavano a carte o parlavano. Ce n’erano altri, più o meno della sua età, che aspettavano il loro turno al tavolo da biliardo, un biliardo grande, con uno strappo nella stoffa verde che era stato riparato con un pezzo di nastro adesivo argentato.

«Ho un messaggio da parte di tuo zio» ribatté Chapman imperturbabile. «Dice di dare la tua macchina a questi due.»

Nella sala giochi dovevano esserci trenta o quaranta persone, e all’improvviso si misero tutti a guardare con attenzione le carte che tenevano in mano, oppure a studiarsi i piedi, o le unghie, facendo del loro meglio per fingere di non ascoltare.

«Non è mio zio.»

L’aria nella sala era viziata, densa di fumo. Chapman sorrise mettendo in mostra le due più brutte file di denti che Shadow avesse mai visto in un essere umano. «Vuoi che glielo riferisca? Pensa che secondo lui sei l’unica ragione che lo fa restare con i lakota.»

«Whiskey Jack dice un sacco di cose» ribatté Harry Bluejay in tono petulante. Anche lui non pronunciava davvero le parole Whiskey Jack, era un nome che suonava più come Wisakedjak. Ecco come lo chiamavano. Wisakedjak, non Whiskey Jack.

«Infatti» disse Shadow. «E tra l’altro ha detto che dovevi scambiare la tua Buick con il nostro Winnebago.»

«Non vedo nessun Winnebago.»

«Te lo porterà lui» disse John Chapman. «Lo sai bene che lo farà.»

Harry Bluejay tentò un tiro di abilità e lo sbagliò. Non aveva la mano abbastanza ferma. «Io non sono il nipote della vecchia volpe. Vorrei che la piantasse di andare in giro a dirlo.»

«Meglio una volpe viva che un lupo morto» rispose Wednesday, in un tono di voce talmente profondo da sembrare un ringhio. «Allora, ci dai questa macchina o no?»

Bluejay rabbrividì in maniera violenta, visibile. «Subito» disse. «Subito. Stavo solo scherzando. Scherzo un sacco, io.» Appoggiò la stecca sul tavolo e prese una giacca pesante da un attaccapanni vicino alla porta che era zeppo di giacche uguali. «Fatemi tirare prima fuori la mia roba.»

Continuava a lanciare occhiate a Wednesday, come se avesse paura di vederlo esplodere da un momento all’altro.

La macchina di Harry Bluejay era parcheggiata a un centinaio di metri. Per arrivarci passarono davanti a una chiesetta cattolica imbiancata a calce, e il prete in piedi sulla soglia li guardò passare. Fumava una sigaretta come se fumare non gli piacesse.

«Buon giorno, padre!» gridò Johnny Chapman, ma l’uomo con il colletto rigido non rispose, schiacciò la sigaretta sotto il tacco, raccolse il mozzicone, lo gettò nel bidone dell’immondizia ed entrò in chiesa.

Alla macchina di Harry Bluejay mancavano i deflcttori, e le ruote erano le più lisce che Shadow avesse mai visto: gomma nera perfettamente levigata. Bluejay spiegò che la macchina beveva olio, ma se si continuava a mettergliene dentro lei sarebbe andata per sempre, fino a quando non si fosse fermata.

Riempì un sacco nero dell’immondizia con tutta la sua roba (tra cui parecchie bottiglie di birra economica con il tappo a vite, non finite, un pacchettino di resina di cannabis avvolto nella stagnola e nascosto sommariamente nel portacenere, una coda di puzzola, due dozzine di cassette di musica country, e una copia malconcia e ingiallita di Straniero in terra straniera). «Scusi se prima l’ho fatta arrabbiare» disse Bluejay a Wednesday mentre gli dava le chiavi della macchina. «Ha idea di quando avrò il Winnebago?»

«Chiedi a tuo zio. È lui il commerciante di macchine usate del cazzo» ringhiò l’altro.

«Wisakedjack non è mio zio» disse Harry Bluejay. Prese il sacchetto di plastica nero, entrò nella casa più vicina e si chiuse la porta alle spalle.

Lasciarono Johnny Chapman a Sioux Falls, davanti a un negozio di alimentazione naturale.

Durante il viaggio Wednesday non parlò. Era d’umore nero fin da quando avevano lasciato la casa di Whiskey Jack.

In una trattoria alle porte di St Paul Shadow prese un quotidiano che qualcuno aveva abbandonato su un tavolo. Dopo una prima occhiata lo riguardò, incredulo, e poi lo mostrò a Wednesday.

«Leggi qui» gli disse.

Wednesday sospirò e abbassò gli occhi sulla prima pagina. «Sono felice di sapere che la controversia dei controllori di volo sia stata risolta senza ricorrere a misure drastiche.»

«Non quello» disse Shadow. «Guarda qui. C’è scritto che è il quattordici febbraio.»

«Buon San Valentino.»

«Siamo partiti in gennaio, il venti, o ventuno. Non lo so di preciso ma era la terza settimana di gennaio. Siamo stati in viaggio tre giorni al massimo. Com’è che oggi è il quattordici febbraio?»

«Perché abbiamo camminato per quasi un mese» rispose Wednesday. «Nelle Badlands. Dietro le quinte.»

«Alla faccia della scorciatoia» esclamò Shadow.

Wednesday allontanò il giornale. «Al diavolo Johnny Appleseed e il suo Paul Bunyan. Nella realtà Chapman era proprietario di quattordici frutteti. Aveva migliaia di acri. Sì, non se la cavava male con la frontiera, però non c’è una sola storia sul suo conto che contenga una briciola di verità, salvo che a un certo punto ha dato di matto. Ma non importa. Come dicono i giornalisti, se la verità non è abbastanza appassionante, riporta la leggenda. Questo paese ne ha bisogno, anche se nemmeno alle leggende si crede più.»

«Ma tu sai.»

«Io sono superato. A chi cazzo gliene frega qualcosa di me?»

A bassa voce, Shadow disse: «Tu sei un dio».

Wednesday si voltò di scatto a guardarlo, come se fosse sul punto di replicare, poi si riappoggiò pesantemente allo schienale a studiare il menu. «E allora?»

«È una bella cosa» disse Shadow.

«Ah sì?» ribatté l’altro, e questa volta fu Shadow a distogliere lo sguardo.

Sul muro del gabinetto di un’area di servizio a una quarantina di chilometri da Lakeside, Shadow vide un piccolo manifesto: una foto in bianco e nero di Alison McGovern e in alto, scritta a mano, la domanda Mi hai visto? Era la stessa fotografia presa a scuola: una ragazzina che sorride sicura con gli elastici azzurri dell’apparecchio sui denti superiori e che da grande vuole lavorare con gli animali.