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Pensò a quello che era appena successo. Era stato come guardare dentro la mente di un altro da una finestra. E poi ripensò. Il signor World: ero io che trovavo familiare la sua voce. Quello era un pensiero mio, non di Town. Perciò sembrava strano. Provò a identificare la voce, a metterla nella categoria alla quale apparteneva, ma continuava a sfuggirgli.

Mi verrà in mente, pensò. Prima o poi mi verrà in mente.

Le luci verdi diventarono azzurre, poi rosse, sbiadirono in un pallido porpora e il ragno si afflosciò sulle zampe metalliche. Wednesday, solitaria figura sotto le stelle, riprese a caminare con il suo cappello a tesa larga, il logoro mantello scuro agitato dal vento di quel non luogo, appoggiando il bastone sulla roccia cristallina.

Quando il ragno metallico fu solo un bagliore lontano nella notte stellata, molto distante nella pianura, Wednesday disse: «Adesso possiamo parlare».

«Dove siamo?»

«Dietro le quinte.»

«Come?»

«Pensa alle quinte di un teatro e immagina di esserci dietro. Ho appena tirato fuori noi due dalla platea e stiamo camminando nella parte posteriore del palcoscenico. È una scorciatoia.»

«Quando ho toccato l’osso sono entrato nella mente di un tale che si chiama Town. È uno spione anche lui. Ci odia.»

«Sì.»

«Ha un capo che si chiama World. Mi ricorda qualcuno, ma non so chi. Guardavo nella mente di Town, o forse c’ero dentro. Non so bene.»

«Sanno dove stiamo andando?»

«Credo che abbiano deciso di sospendere la caccia, per il momento. Non volevano seguirci alla riserva. Stiamo andando in una riserva?»

«Può darsi.» Wednesday si appoggiò un istante al bastone, poi riprese a camminare.

«Che cos’era quella specie di ragno?»

«Una manifestazione diagrammatica. Un motore di ricerca.»

«Sono pericolosi?»

«Si arriva alla mia età solo aspettandosi il peggio.»

Shadow sorrise. «E quale sarebbe l’età?»

«Quella della mia lingua» rispose l’altro. «Poco più vecchia di quella dei miei denti.»

«Tieni le carte così nascoste» disse Shadow «da farmi dubitare della loro esistenza.»

Wednesday si limitò a un grugnito.

Ogni collina era più ripida della precedente.

Shadow cominciava ad avere mal di testa. C’era una pulsazione nella luce stellare, qualcosa che risuonava all’unisono con il battito nelle tempie e nel petto. In fondo all’altura successiva incespicò, aprì la bocca per dire qualcosa e senza preavviso vomitò.

Wednesday prese una fiaschetta dalla tasca. «Bevine un sorso» disse. «Un sorso solo.»

Il liquido era aspro ed evaporò come un buon brandy, anche se non sembrava alcolico. Wednesday si riprese subito la fiaschetta e la infilò nella tasca. «Al pubblico non fa bene camminare dietro le quinte. È per questo che ti senti così. Dobbiamo uscire in fretta.»

Accelerarono il passo, Wednesday arrancava spedito, Shadow incespicando di tanto in tanto ma più in forma, dopo la bevanda che gli aveva lasciato in bocca un gusto di scorza d’arancia, olio di rosmarino, menta e chiodi di garofano.

L’altro lo afferrò per un braccio. «Là» disse indicando due identici monticelli di roccia cristallina alla loro sinistra. «Cammina tra quei monticelli. Restami accanto.»

Camminarono, e Shadow fu colpito sulla faccia contemporaneamente dall’aria fredda e dalla luce del giorno.

Erano fermi a metà salita di una dolce collina. La foschia era scomparsa rivelando un giorno freddo e assolato, con il cielo di un azzurro perfetto. A fondovalle si vedeva una strada sterrata su cui procedeva una station wagon rossa che sembrava un’automobilina giocattolo, a quella distanza. Da una roulotte usciva del fumo. Era come se qualcuno, una trentina d’anni prima, l’avesse fatta ruzzolare sul pendio collinare. La roulotte aveva subito riparazioni di ogni tipo e, in alcuni punti, era anche rattoppata.

La porta si spalancò non appena si avvicinarono, e un uomo di mezza età con uno sguardo penetrante e una bocca che sembrava una ferita da coltello li guardò dall’alto in basso dicendo: «Ehi, avevo sentito che due bianchi mi stavano venendo a trovare. Due bianchi in un Winnebago. E ho saputo che si sono persi, come succede sempre ai bianchi, se non piazzano indicazioni dappertutto. Ecco qui due poveri diavoli alla mia porta. Lo sapete che siete in terra lakota?». L’uomo aveva i capelli lunghi e grigi.

«Da quando in qua sei un lakota, vecchio imbroglione?» disse Wednesday. Adesso indossava una giacca e un berretto con i paraorecchi, e a Shadow cominciava già a sembrare impossibile che fino a pochi minuti prima, sotto le stelle, portasse un cappello a tesa larga e un logoro mantello. «Allora, Whiskey Jack? Io sto morendo di fame e il mio amico qui ha appena vomitato la colazione. Ci fai entrare?»

Whiskey Jack si grattò un’ascella. Era vestito con un paio di jeans e una maglietta grigia come i suoi capelli. Ai piedi calzava dei mocassini e non sembrava rendersi conto del freddo. Poi disse: «Mi piace questo posto. Venite dentro, uomini bianchi che hanno perso il loro Winnebago».

Dentro la roulotte c’era molto fumo e, seduto al tavolo, un altro uomo, con un paio di calzoni di pelle scamosciata e i piedi scalzi. La sua pelle aveva il colore della corteccia.

Wednesday sorrideva felice. «Bene» disse, «ma guarda che caso. Whiskey Jack e Apple Johnny. Due piccioni con una fava.»

L’uomo seduto, Apple Johnny, lo guardò fisso, poi si portò una mano sui genitali e disse: «Ti sbagli un’altra volta. Sono appena arrivato e la mia fava è al suo posto.» Poi guardò Shadow e alzò la mano mostrando il palmo. «Sono John Chapman. Non credere a niente di quello che dice il tuo capo sul mio conto. È uno stronzo. È sempre stato stronzo e sempre lo sarà. Certa gente nasce così, non ci si può fare niente.»

«Sono Mike Ainsel» disse Shadow.

Chapman si grattò il mento ispido. «Ainsel» ripeté. «Non è un nome. Ma in certi casi può funzionare. Come ti chiamano?»

«Shadow.»

«Ti chiamerò Shadow, allora. Ehi, Whiskey Jack» gridò, però non disse proprio così, ci mise molte più sillabe. «Si mangia?»

Whiskey Jack usò un cucchiaio di legno per sollevare il coperchio di una pentola di ferro nero che borbottava sulla cucina economica. «È pronto.»

Prese quattro scodelle di plastica e le riempì, poi le mise sul tavolo. Aprì la porta, uscì nella neve e da un cumulo prese una tanica di plastica da cinque litri. La portò dentro e ne versò il liquido, di colore giallo-marrone torbido, in quattro grossi bicchieri che sistemò accanto alle scodelle. Infine trovò quattro cucchiai e sedette con gli altri al tavolo.

Wednesday alzò il bicchiere con aria sospettosa. «Sembra piscio» disse.

«Bevi ancora quella roba?» gli chiese Whiskey Jack. «Voi bianchi siete matti. Questo è molto meglio.» Poi, rivolgendosi a Shadow: «Lo stufato è soprattutto di tacchino selvatico. John ha portato il brandy di mele».

«È un sidro leggero» spiegò John Chapman. «Non mi sono mai piaciuti i liquori forti. Fanno diventare matti.»

Lo stufato era delizioso, e il sidro squisito. Shadow si costrinse a mangiare lentamente, a masticare, anziché ingoiare tutto subito, ma aveva più fame di quanto sospettasse. Si servì una seconda porzione di tacchino e un secondo bicchiere di sidro.

«Corre voce che sei andato in giro a parlare con tutti, e che hai proposto di tutto. Che vuoi portare i vecchi sul sentiero di guerra» disse John Chapman. Shadow e Whiskey Jack stavano lavando i piatti e mettendo lo stufato avanzato in un contenitore. Poi Whiskey Jack sistemò le scodelle in un cumulo di neve davanti alla porta con una cassetta del latte sopra per riconoscerlo.

«Mi sembra una sintesi equa e assennata» rispose Wednesday.

«Vinceranno loro» disse Whiskey Jack senza mezzi termini. «Hanno già vinto. Tu hai già perso. Come l’uomo bianco e la mia gente. Hanno vinto quasi sempre i bianchi. E quando perdevano firmavano un trattato. Poi lo rompevano. Così vìncevano di nuovo. Io non combatto per un’altra causa persa.»