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Troppa sofferenza.

«Venera gli dèi» disse alla giovane Vedova Paris nel bayou, un’ora dopo mezzanotte. Erano entrambe nude fino alla cintola, sudate nella notte umida, la pelle che coglieva riflessi di luna.

Jacques, il marito (la cui morte, avvenuta tre anni prima, portava parecchi segni riconoscibili) della Vedova Paris, le aveva parlato un po’ degli dèi di Santo Domingo, ma non le interessavano. Per lei, il potere veniva dai riti, non dagli dèi.

Marna Zouzou e la Vedova Paris cantilenavano e si lamentavano nella palude. Cantavano per il serpente, la donna di colore libera e la schiava con il braccio rattrappito.

«C’è qualcosa di più della tua prosperità e della sconfitta delle tue rivali» disse Marna Zouzou.

Molte parole rituali, parole che un tempo conosceva come le conosceva il fratello, erano sfuggite alla memoria. Aveva detto alla graziosa Marie Laveau che le parole non erano importanti, che contavano le melodie e i ritmi, e lì, mentre canta per il serpente, nella palude, ha una strana visione. Vede il ritmo dei canti, il ritmo della calinda, della bamboula, tutti i ritmi dell’Africa equatoriale che lentamente si diffondono sulla terra a mezzanotte fino a quando il paesaggio trema e ondeggia al ritmo degli antichi dèi dai cui regni lei proviene. Ma nemmeno questo, comprende lì nella palude, nemmeno questo basterà.

Si volta verso la graziosa Marie e si vede con i suoi occhi, una donna dalla pelle nera, il volto rugoso, il braccio che le penzola al fianco, gli occhi di chi ha visto i propri figli contendere il cibo ai cani. Vide se stessa e per la prima volta capì il disgusto e la paura che la giovane donna provava nei suoi confronti.

Allora rise, e si accovacciò prendendo nella mano buona il serpente lungo come un alberello e grosso come la cima di una nave.

«Tieni» disse, «questo sarà il nostro voudón.»

Lasciò cadere il serpente inerte nel cesto che la pallida Marie portava al braccio.

E poi, al chiaro di luna, per l’ultima volta la seconda vista le permise di vedere il fratello Agasu. Non era il ragazzino di dodici anni che aveva lasciato al mercato degli schiavi di Bridgeport, ma un uomo enorme, nudo, la schiena coperta dì profonde cicatrici, e sorrideva mostrando i denti rotti. In una mano stringeva il machete. Il braccio destro era un moncherino.

Lei allungò la mano sinistra, quella buona.

«Aspettami, aspettami un momento» sussurrò. «Arrivo. Arrivo da te tra poco.»

E Marie Paris pensò che la vecchia stesse parlando con lei.

12

L’America ha investito religione e morale in azioni ad alto rendimento. Ha adottato la posizione inattaccabile di una nazione che è benedetta perché merita di esserlo, e i suoi figli, indipendentemente da quali teologie riconoscono o disprezzano, sottoscrivono senza riserve il credo nazionale.

AGNES REPPLIER, Times and Tendencies

Shadow si diresse a ovest, attraverso Wisconsin e Minnesota, entrò nel North Dakota, dove le montagne innevate sembravano grandi bufali addormentati, e lui e Wednesday macinarono chilometri su chilometri vedendo tutto e non vedendo niente. Poi piegarono verso il South Dakota, diretti alle riserve.

Wednesday aveva scambiato la Lincoln, che Shadow guidava volentieri, con un vetusto e ingombrante Winnebago che sprigionava un persistente e inconfondibile odore di gatto e che Shadow non guidava volentieri per niente.

Quando superarono il primo cartello che segnalava Mount Rushmore, ancora lontano parecchie centinaia di chilometri, Wednesday borbottò qualcosa. «Quello lì» disse «è un luogo sacro.»

Shadow aveva pensato che il suo compagno di viaggio dormisse. «So che era sacro per gli indiani.»

«È un posto sacro» ribatté Wednesday. «È così che si fanno le cose in America: hanno bisogno di dare alla gente una scusa per pregare. Di questi tempi non si può andare a vedere una montagna e basta. Perciò ecco i faccioni spaventosi dei presidenti del signor Gutzon Borglum. Una volta scavati nella roccia il permesso di venire è accordato, ed ecco le folle che accorrono a vedere dal vivo qualcosa che hanno visto mille volte in cartolina.»

«Conoscevo un tipo, una volta. Faceva pesi alla Muscle Farm, anni fa. Mi aveva raccontato che gli indiani dakota, i più giovani, scalavano la montagna mettendosi uno sulle spalle dell’altro fino a che l’ultimo potesse pisciare sul naso del presidente.»

Wednesday scoppiò a ridere sguaiatamente. «Oh bene! Benissimo! E c’è un presidente in particolare che è la latrina della loro collera?»

Shadow scrollò le spalle. «Non l’ha specificato.»

Sotto le ruote del Winnebago scorrevano i chilometri e Shadow cominciò a immaginare di essere immobile, mentre il paesaggio americano gli scorreva di fianco a centotrenta all’ora. Una foschia invernale ne smussava i contorni.

Erano le dodici del secondo giorno di viaggio, e ormai erano quasi arrivati. Shadow, che stava rimuginando tra sé, disse: «A Lakeside la settimana scorsa è sparita una ragazza. Quando eravamo a San Francisco».

«Ah sì?» Wednesday sembrava scarsamente interessato.

«Una ragazzina che si chiamava Alison McGovern. Non è la prima. Ne sono scomparsi altri. Sempre in inverno.»

Wednesday aggrottò la fronte. «Che tragedia, vero? Le faccine sui cartoni del latte — anche se non riesco a ricordarmi quando ne ho vista una l’ultima volta — e sui muri nelle aree di servizio. "Mi hai visto?" chiedono. Una domanda metafisica. "Mi hai visto?" Esci alla prossima.»

A Shadow sembrò di sentire il rumore di un elicottero, ma le nubi troppo basse non permettevano di vedere niente.

«Perché hai scelto proprio Lakeside?» chiese.

«Te l’ho detto. È un posticino tranquillo in cui nascondersi. A Lakeside sei al sicuro, fuori dalla portata dei radar.»

«Come mai?»

«Perché è così. Adesso prendi a sinistra.»

Shadow svoltò.

«C’è qualcosa che non va» disse Wednesday. «Cazzo. Porca puttana schifosa. Rallenta, ma non fermarti.»

«Ti spiacerebbe spiegarmi?»

«Guai. Conosci una strada alternativa?»

«No. È la prima volta che vengo qui. E non so nemmeno dove stiamo andando.»

Dall’altra parte della collina c’era una luce rossa e lampeggiante, un po’ appannata dalla foschia.

«È un posto di blocco» disse Wednesday, e si infilò una mano prima in una tasca e poi nell’altra in cerca di qualcosa.

«Posso fermarmi e tornare indietro.»

«Inutile. Li abbiamo anche alle calcagna. Tieniti sui venti, venticinque all’ora.»

Shadow guardò nello specchietto retrovisore: a un paio di chilometri si vedevano i fanali di una macchina. «Ne sei sicuro?» chiese.

Wednesday sbuffò. «Sicuro come l’oro» disse. «Come l’allevatore di tacchini quando riuscì a covare il suo primo uovo di tartaruga. Ah, ce l’ho fatta!» e dal fondo della tasca estrasse un gessetto bianco.

Cominciò a scrivere sul cruscotto, tracciando segni come se stesse cercando di risolvere un’equazione algebrica, oppure come un vagabondo intento a scrivere lunghi messaggi per altri vagabondi in un codice tutto loro: cane mordace, città pericolosa, donna generosa, una galera accettabile per passarci la notte…

«Va bene» esclamò Wednesday. «Adesso vai a cinquanta e non rallentare per nessun motivo.»

Una delle macchine che li seguiva aveva acceso lampeggianti e sirene e stava accelerando per raggiungerli. «Non rallentare» ripeté Wednesday. «Vogliono farci rallentare prima che arriviamo al posto di blocco.» Scrac, scrac, scrac faceva il gesso sulla plastica.

Salirono sulla cima della collina. Il posto di blocco si trovava a meno di un chilometro. Dodici automobili schierate e sul ciglio della strada macchine della polizia e parecchi fuoristrada neri.

«Ecco fatto» disse Wednesday, e ripose il gessetto in tasca. Il cruscotto era coperto di segni simili a rune.