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Oh, disse versandogli il caffè, sperava proprio che il signor Ainsel riuscisse a vedere la città in estate o a tarda primavera, quando i lillà, i meli e i ciliegi sono in fiore, secondo me non esiste niente di più bello, niente al mondo che li superi in bellezza.

Shadow le diede cinquecento dollari di acconto, salì in macchina, inserì la retromarcia e uscì dal cortile per imboccare il vialetto. Missy Gunther picchiettò sul vetro. «Questa è per lei. Me l’ero quasi dimenticata.» Gli tese una busta di pelle scamosciata. «È una specie di gioco. Ce le siamo fatte fare qualche anno fa. Non deve guardare subito.»

Lui la ringraziò e guidò con cautela fino in città prendendo la strada che costeggiava il lago. Gli sarebbe piaciuto vederlo in estate, o in autunno: doveva essere bellissimo, ne era sicuro.

Arrivò a casa in dieci minuti.

Parcheggiò la Toyota e imboccò la scaletta esterna che conduceva al suo gelido appartamento. Tirò fuori gli acquisti dai sacchetti, sistemò le provviste nell’armadio e nel frigorifero e poi aprì la busta che gli aveva dato Missy Gunther.

Conteneva un passaporto. Blu, con la copertina plastificata: dentro c’era scritto che Michael Ainsel (il nome era stato aggiunto da Missy Gunther in bella calligrafia) era cittadino di Lakeside. Nella pagina successiva c’era una cartina della città e il resto del libretto era zeppo di buoni sconto validi in tutti i negozi.

«Credo che questo posto potrebbe piacermi» disse Shadow a voce alta. Guardò il lago gelato fuori della finestra coperta di ghiaccio. «Se solo non facesse così freddo.»

Intorno alle due del pomeriggio, mentre Shadow si esercitava nel trucco della Moneta Scomparsa con un pezzo da venticinque centesimi, passandolo da una mano all’altra senza farlo notare, sentì un colpo alla porta. Siccome le mani erano intorpidite dal freddo lasciava cadere continuamente il quarto di dollaro sul tavolo, e il colpo alla porta glielo fece cadere per l’ennesima volta.

Andò ad aprire.

Un istante di puro terrore: l’uomo indossava una maschera nera che gli copriva la parte inferiore del volto. Era il genere di maschera che potrebbe indossare un rapinatore di banche in un telefilm, o che un serial killer userebbe per spaventare le sue vittime in un thriller di serie B. La testa del visitatore era coperta da un berretto di lana nero.

Comunque era più basso e più magro di Shadow, non sembrava armato e indossava una giacca di lana scozzese a colori vivaci, il tipo di giacca che i serial killer in genere evitano con cura.

«Sohh Ihhalaan» disse il visitatore.

«Come?»

L’uomo abbassò la maschera rivelando la faccia allegra del vecchio Hinzelmann. «Ho detto "Sono Hinzelmann". Non so proprio come si facesse prima dell’invenzione di queste maschere. Non me lo ricordo. Probabilmente si calcavano grossi berretti sulla faccia e poi si avvolgevano con sciarpe e chissà cos’altro. A me pare che quello che inventano oggi sia miracoloso. Sarò anche vecchio, ma non ho certo intenzione di prendermela con il progresso.»

Concluse il discorso mettendo in mano a Shadow un cesto pieno di formaggi locali, bottiglie, vasetti e alcuni piccoli salami che sembravano fatti con la cacciagione estiva ed entrò in casa. «Buon giorno dopo il giorno di Natale» disse. Anche con la maschera aveva naso, orecchi e guance rossi come lamponi. «Ho saputo che hai mangiato un’intera pasty di Mabel. Ti ho portato qualche cosetta.»

«È molto gentile da parte sua» disse Shadow.

«Gentile un corno. La settimana prossima ti faccio ripagare tutto con la lotteria gestita dalla Camera di Commercio, che poi sarebbe gestita da me. L’anno scorso abbiamo raccolto quasi diciassettemila dollari per il reparto pediatrico del Lakeside Hospital.»

«Non posso comprare subito i biglietti?»

«Non si può fino a quando la bagnarola non viene messa sul ghiaccio.» Guardò il lago dalla finestra. «Fa freddo, là fuori. Ieri notte la temperatura dev’essere scesa di almeno dieci gradi.»

«Tutto in un colpo» convenne Shadow.

«Ai vecchi tempi si pregava perché venissero gelate così» disse Hinzelmann. «Me l’ha raccontato mio padre.»

«E perché mai?»

«In effetti, sì, a quei tempi era praticamente l’unico modo che i coloni avessero per sopravvivere. Non c’era da mangiare per tutti, allora, e non è che si potesse andare da Dave’s a riempire il carrello, nossignore. Così mio nonno si era spremuto le meningi: quando arrivava una giornata veramente fredda come questa prendeva mia nonna e i bambini, mio zio, la zia e mio papà — che era il più giovane — insieme alla servetta e al bracciante e li portava fino al torrente, li faceva bere un po’ di rum mescolato con erbe, una ricetta del suo paese, poi rovesciava addosso a tutti l’acqua del torrente. Ovviamente congelavano nel giro di pochi secondi, diventavano duri e bluastri come ghiaccioli all’anice. Poi li trasportava fino a una fossa che aveva fatto scavare e riempire di paglia preventivamente e li impilava uno sull’altro, come pezzi di legno di una catasta, metteva intorno altra paglia e copriva la fossa con una tavola per tenere lontani gli animali — a quei tempi c’erano lupi e orsi e creature di ogni genere che ormai non si vedono più, però non c’erano hodag, sono solo storie quelle che si raccontano sugli hodag e non ti giudico così credulone da raccontarti storie senza fondamento, nossignore — dicevamo, chiudeva con una tavola e alla prima nevicata la fossa era completamente coperta, eccetto la bandierina che aveva piantato per ritrovarla.

«A quel punto il nonno superava l’inverno con agio, senza più preoccuparsi di finire le scorte di cibo o di combustibile. E quando arrivava la primavera, andava nel punto dove aveva piantato la bandiera e scavava nella neve, toglieva la tavola, riportava tutti i membri della famiglia a casa e a uno a uno li sistemava davanti al fuoco a scongelare. Nessuno protestava, salvo una volta uno dei braccianti perché, siccome mio nonno non aveva sistemato bene la tavola, una famiglia di topi gli aveva rosicchiato mezzo orecchio. A quei tempi sì che c’erano dei veri inverni. Si poteva fare. Questi inverni da femminuccia che abbiamo adesso non sono abbastanza freddi.»

«Ah no?» chiese Shadow continuando a dargli corda e divertendosi moltissimo.

«Dopo l’inverno del ’49 non ce ne sono più stati, ma tu sei troppo giovane per ricordartelo. Quello sì che è stato un inverno come si deve. Vedo che hai comperato un mezzo di locomozione.»

«Già. Cosa gliene pare?»

«A dirti la verità, il ragazzo dei Gunther non mi è mai piaciuto. Avevo un ruscello con le trote nel bosco in fondo, molto in fondo alla mia proprietà, in effetti sarebbe terra comunale, comunque io ci avevo messo qualche pietra per creare delle pozze dove potessero fermarsi le trote. Prendevo dei veri capolavori, un giorno ho pescato una trota che doveva essere tre o quattro chili, e quel moccioso dei Gunther ha distrutto tutte le pozze minacciando di denunciarmi alla guardia forestale. Adesso è all’università, però tornerà presto e se ci fosse giustizia a questo mondo dovrebbe essere un fuggiasco invernale, invece no, continua a ronzare qui intorno come una tarma intorno a un gilet di lana.» Cominciò a sistemare il contenuto del cesto di benvenuto sugli scaffali. «Questa è la cotognata di Katherine Powdermaker. Ogni Natale, da prima che tu venissi al mondo, me ne regala un vasetto, e la triste verità è che non ne ho mai aperto uno. Sono tutti giù in cantina, quaranta o cinquanta vasetti di cotognata. Magari un giorno ne apro uno e scopro che mi piace. Nel frattempo eccone uno per te. Magari è di tuo gusto.»

«Che cos’è un fuggiasco invernale?»

«Mmm». Il vecchio si sistemò il berretto dietro le orecchie e si grattò la tempia con l’indice paonazzo. «Be’, non è un’esclusiva di Lakeside: la nostra è una città a posto, superiore alla media, comunque non siamo perfetti neanche noi. Certi inverni succede magari che un ragazzino diventi matto, quando fa così freddo da non poter uscire, e la neve è talmente asciutta che non puoi farci nemmeno le palle perché si sbriciolano…»