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«Non l’ho mai visto.»

«L’ha visto eccome. La prego di non commettere l’errore di giudicarci stupidi. Non lo siamo.»

«Mmm. Incontro un sacco di gente. Magari l’ho conosciuto e dimenticato subito dopo.»

«Signorina, le conviene cooperare.»

«Altrimenti mi presenterete il signor Tenaglia e il signor Pentothal?»

«Signorina, lei sta peggiorando la sua posizione.»

«Cavoli. Mi dispiace. Abbiamo finito? Perché adesso vorrei salutarvi e chiudere la porta e immagino che una volta saliti sul signor Furgone ve ne andrete.»

«Abbiamo preso nota della sua volontà di non cooperare, signorina.»

«Ciao ciao.»

Clic.

10

Ti dirò tutto di me
ma tacerò il passato
perciò mandami a letto per sempre.
TOM WAITS, Tango Till They’re Sore

Un’esistenza intera nelle tenebre e nel sudiciume, sognò Shadow quella prima notte a Lakeside. Un bambino, la sua vita, lontana nel tempo e nello spazio, in una terra di là dell’oceano, dove sorge il sole. Una vita senz’alba, dove regnano incontrastate penombra diurna e notturna cecità.

Nessuno parlava con lui. Sentiva voci umane, fuori, ma non capiva il loro linguaggio più di quanto capisse il grido della civetta e i guaiti dei cani.

Ricordava, o gli sembrava di ricordare, che una notte, tanto tanto tempo prima, un essere grande era entrato piano, ma non per ammanettarlo né per nutrirlo; lo aveva preso e se l’era stretto al petto in un abbraccio. Aveva un buon odore. Calde gocce d’acqua erano cadute dalla faccia di lei sulla sua. Allora si era spaventato e aveva pianto di paura con tutto il fiato che aveva in gola.

Lei lo aveva rimesso in gran fretta sul pagliericcio ed era uscita dalla capanna chiudendosi la porta alle spalle.

Conservava il ricordo di quel momento come se fosse un tesoro, prezioso al pari della dolcezza del cuore del cavolo, del sapore aspro delle prugne, della durezza delle mele, dell’unta squisitezza del pesce arrosto.

Adesso, alla luce del fuoco, vedeva le loro facce; erano tutti lì che guardavano lui quando venne portato fuori dalla capanna per la prima volta, l’unica volta. Allora erano quelle, le sembianze umane. Cresciuto al buio, non aveva mai visto un volto. Era tutto nuovo. Tutto strano. La luce del falò gli feriva gli occhi. Gli misero una corda intorno al collo per condurlo nel luogo dove lo aspettava un uomo.

E quando la lama si levò, quali grida di gioia lanciò la folla. Il bambino delle tenebre rise con loro, libero e felice.

Poi la lama si abbassò.

Shadow aprì gli occhi: moriva di fame e stava congelando in quell’appartamento che aveva i vetri delle finestre coperti all’interno da uno strato di ghiaccio.

Era stato il suo respiro, pensò. Si alzò dal letto, lieto di non doversi rivestire. Passando grattò il pannello di vetro e sentì il ghiaccio sciogliersi sotto l’unghia.

Provò a ricordare il sogno ma aveva dimenticato tutto, eccetto l’infelicità e la tenebra.

Si infilò le scarpe. Sarebbe arrivato fino in centro a piedi, decise, attraversando il ponte all’estremità settentrionale del lago, se aveva capito bene come orientarsi a Lakeside. Indossò la giacca leggera ricordando che si era ripromesso di comprare un cappotto caldo per l’inverno, aprì la porta dell’appartamento e uscì sul portico. Il freddo gli tolse il respiro; quando provò a inspirare dal naso sentì la peluria nelle narici irrigidirsi, come se si stesse congelando. Dal portico si godeva una bella vista del lago, chiazze irregolari di grigio circondate da una distesa bianca.

L’ondata di gelo era arrivata, non c’erano dubbi. A quindici gradi sotto zero non sarebbe stata una bella passeggiata, ma Shadow era certo di potercela fare ad arrivare in centro. Che cosa gli aveva detto Hinzelmann: dieci minuti di strada? E in fondo lui era un uomo forte, camminando di buon passo si sarebbe riscaldato.

Partì in direzione del ponte.

Cominciò a tossire quasi subito, una tosse secca, come se l’aria tagliente gli irritasse i polmoni. Dopo pochi minuti gli facevano male le orecchie, le guance, la bocca, poi cominciarono a dolere i piedi. Spinse più a fondo le mani nelle tasche della giacca e chiuse le dita nel disperato tentativo di non disperdere calore. Si riscoprì a pensare alle storie sugli inverni del Minnesota che gli aveva raccontato Low Key Lyesmith, soprattutto a quella del cacciatore costretto da un orso ad arrampicarsi su un albero durante una gelata particolarmente dura. A un certo punto il cacciatore aveva tirato fuori l’uccello per pisciare e l’arco di urina fumante si era ghiacciato prima di toccare terra, permettendogli di usarlo come scivolo e riconquistare la libertà. Il sorriso sardonico che gli provocò il ricordo fu seguito da un altro colpo di tosse secco e doloroso.

Cammina e cammina, quando si voltò a guardare l’edificio dove abitava si accorse di non essere così lontano come pensava.

Aveva preso la decisione sbagliata. Però ormai camminava da tre o quattro minuti, e già si vedeva il ponte. Proseguire o tornare richiedeva lo stesso sforzo (e una volta a casa cos’avrebbe fatto? Chiamato un taxi da un telefono scollegato? Aspettato il disgelo? Nel frigorifero non c’era niente da mangiare).

Decise di proseguire, e intanto riformulò la prima stima della temperatura. A quanti gradi sotto zero potevano essere? Venti? Trenta? Forse quaranta, forse quello strano valore in cui il termometro in centigradi e quello Fahrenheit dicono la stessa cosa. No, non poteva essere così freddo. Comunque il vento era gelido e soffiava costante sul lago, disceso attraverso il Canada direttamente dall’Artico.

Pensò con rimpianto agli scaldini chimici. Peccato non averli in quel momento.

Ancora dieci minuti, secondo lui, ma il ponte sembrava sempre lontano. Aveva troppo freddo per tremare. Gli facevano male gli occhi. Quello era un freddo da fantascienza, era una storia ambientata sul lato buio di Mercurio all’epoca in cui pensavano che il pianeta avesse un lato buio. O sul roccioso Plutone, dove il sole è soltanto una stella che nell’oscurità brilla poco più luminosa delle altre. Qui, pensò Shadow, ci manca poco che l’aria arrivi a secchiate, spargendosi come birra per l’atmosfera.

Le rare macchine che passavano sembravano irreali: navicelle spaziali, scatolette congelate di vetro e metallo, abitate da gente meglio equipaggiata di lui. Gli venne in mente una vecchia canzone, tra le preferite di sua madre: Walking in a Winter Wonderland, e la canticchiò a labbra chiuse camminando al ritmo della musica.

Non sentiva più i piedi. Guardò le scarpe nere di cuoio e le calze di cotone leggero e cominciò a preoccuparsi seriamente del rischio di congelamento.

Non era uno scherzo, quella camminata. A quel punto non era più neanche una stupidaggine, ormai si trattava di un autentico caso di: Oh-cazzo-sono-nella-merda-fino-al-collo. Gli indumenti che portava offrivano contro il vento la stessa protezione di un velo di pizzo o una rete da pesca; le raffiche gli congelavano le ossa, il midollo, gli stavano congelando le ciglia, quel posticino caldo sotto le palle che cercavano di ritirarsi nella cavità pelvica.

Si esortò a continuare. Continua a camminare. Quando torno a casa, mi bevo una secchiata d’aria. Adesso nella testa gli ronzava una canzone dei Beatles, e adeguò il passo al nuovo ritmo. Fu soltanto quando arrivò al ritornello che si rese conto di canticchiare Help!

Era quasi al ponte. Doveva attraversarlo, poi ci sarebbero voluti altri dieci minuti per arrivare fino ai negozi sulla riva occidentale, forse poco di più…

Un’automobile scura lo superò, rallentò, proseguì di poco e fece retromarcia con un sbuffo di gas per fermarsi proprio accanto a lui. Si abbassò un finestrino, e il vapore che uscì dall’abitacolo si mescolò ai gas di scarico formando una nuvola di alito di drago che rimase sospesa. «Va tutto bene?» chiese il poliziotto.