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«Questo paese è stato fatto emergere dalle profondità dell’oceano da un palombaro» disse il fuoco. «E stato tessuto da un ragno con la sua bava. È stato cagato da un corvo. È il corpo di un padre caduto le cui ossa sono diventate montagne, i cui occhi sono laghi.»

«Questa è una terra di sogni e di fuoco» disse la fiamma.

L’uomo-bufalo ripose il tizzone tra le fiamme.

«Perché mi dici queste cose?» chiese Shadow. «Io non sono importante. Non sono nessuno. Ero un allenatore discreto, un ladro a tempo perso davvero fetente e forse un marito non così bravo come credevo…» Non riuscì a concludere.

«Come faccio ad aiutare Laura?» chiese all’uomo-bufalo. «Vuole tornare viva. Le ho detto che l’avrei aiutata. Glielo devo.»

L’uomo-bufalo non parlò. Indicò il soffitto della caverna. Shadow lo seguì con gli occhi. C’era una sottile lama di luce fredda che entrava da un’apertura nella sommità lontana.

«Lassù?» chiese rimpiangendo che le sue domande non trovassero mai risposta. «Dovrei andare lassù?»

Allora il sogno lo sollevò, poiché l’idea era diventata azione, e Shadow si ritrovò schiacciato contro la roccia e la terra. Era una specie di talpa che cercava di aprirsi un varco, un tasso che scavava, una marmotta che sollevava la terra con le zampe, un orso, ma era terra troppo dura, troppo compatta; respirava con affanno e ben presto non riuscì più ad avanzare, né a scavare o arrampicarsi, e capì che sarebbe morto, lì nelle profondità sotto il mondo.

Da solo non avrebbe potuto farcela. Ogni sforzo era vano. Sapeva che, anche se il suo corpo stava viaggiando in un autobus riscaldato attraverso le foreste invernali, se avesse smesso di respirare lì, sotto il mondo, avrebbe smesso di respirare anche sull’autobus, stava già ansimando con brevi respiri mozzi.

Lottò cercando di spingere, sempre più debole, consumando, a ogni movimento, aria preziosa. Era in trappola: non poteva avanzare e non poteva tornare da dove era venuto.

«Adesso scendi a patti» gli disse una voce nella mente.

«Che cosa ho da offrire?» domandò. «Non ho niente.» Sentiva in bocca il sapore dell’argilla, denso e polveroso sotto i denti.

Poi disse: «Eccetto me stesso. Ho me stesso, non è forse vero?».

Fu come se ogni cosa trattenesse il respiro.

«Offro me stesso» disse.

La reazione fu immediata. Le rocce e la terra che lo avevano avvolto cedettero schiacciandolo sotto il loro peso fino a svuotargli i polmoni dell’ultimo soffio. La pressione divenne dolore, un peso che lo comprimeva da ogni parte. Raggiunse l’apogeo della sofferenza e lì rimase, sospeso, sapendo che di più non avrebbe potuto sopportare. In quel momento la contrazione si allentò e Shadow ricominciò a respirare. La luce sopra di lui era diventata più forte.

Qualcosa lo spingeva verso la superficie.

Quando lo spasmo successivo arrivò, Shadow cercò di assecondarlo. Questa volta si sentì spinto in alto.

Il dolore era incredibile, durante quell’ultima terribile contrazione, e si sentì schiacciato, stritolato e spinto attraverso una rigida fessura rocciosa che gli faceva scricchiolare le ossa e gli spappolava i muscoli. Quando la bocca e la testa martoriata emersero dalla soglia cominciò a gridare di paura e dolore.

Mentre gridava si chiese se non stesse per caso gridando anche nel mondo della veglia, se non stesse gridando anche nel sonno su quell’autobus immerso nell’oscurità.

E quando l’ultima contrazione finì, Shadow si ritrovò per terra, le mani che stringevano la rossa argilla.

Si mise seduto, ripulì la faccia e guardò in cielo. Era il tramonto, un lungo tramonto purpureo, già le stelle spuntavano a una a una, stelle più luminose di qualsiasi stella mai vista o immaginata.

«Presto cadranno» disse alle sue spalle la voce crepitante della fiamma. «Presto cadranno e il popolo delle stelle incontrerà il popolo della terra. Tra loro vi saranno eroi, uomini che sconfiggeranno mostri e porteranno la luce della conoscenza, ma nessuno diventerà un dio. Questo è un posto sbagliato per gli dèi.»

Una ventata d’aria, fredda in maniera scioccante, lo investì in pieno. Era come una doccia ghiacciata. Sentì la voce dell’autista che annunciava l’arrivo a Pinewood: «Chi ha bisogno di fumare una sigaretta o di sgranchirsi le gambe può scendere. Sosta di dieci minuti, poi si riparte».

Shadow barcollò giù dall’autobus. Erano davanti a un’altra pompa di benzina, un piccolo spiazzo praticamente identico a quello da cui era partito. L’autista stava aiutando due adolescenti a sistemare i borsoni nel bagagliaio.

«Ehi» chiamò rivolgendosi a Shadow. «Lei scende a Lakeside, giusto?»

Semiaddormentato, Shadow rispose di sì.

«Accidenti, quella sì che è una bella città» disse la donna. «Qualche volta penso che se mi dovessi trasferire armi e bagagli da qualche parte, andrei proprio a Lakeside. La città più carina che abbia mai visto in vita mia. Ci abita da molto?»

«È la prima volta che ci vado.»

«Mangi una pasty per me da Mabel’s, mi raccomando.»

Shadow decise di non chiedere spiegazioni. «Senta» le domandò invece, «ho forse parlato nel sonno?»

«Io non ho sentito niente.» La donna guardò l’ora. «A bordo. Quando arriviamo a Lakeside la chiamo.»

Le due ragazze salite a Pinewood — Shadow dubitò che avessero più di quattordici anni — si erano sedute nei due sedili davanti al suo. Erano amiche, dedusse Shadow origliando senza volere la conversazione, non sorelle. Una delle due non sapeva niente del sesso però sapeva un sacco di cose sugli animali perché lavorava o passava molto tempo in una specie di rifugio per animali abbandonati, mentre l’altra non era interessata agli animali ma, armata di centinaia di brandelli di informazione carpiti su Internet o dai programmi televisivi pomeridiani, era convinta di saperla lunga sul comportamento sessuale dei bipedi. Shadow ascoltò con orrore e divertimento la ragazza che si credeva esperta delle faccende del mondo raccontare nei dettagli il meccanismo dell’uso di Alka-Seltzer per migliorare il sesso orale.

Shadow si sforzò di non ascoltarle, respingendo ogni suono eccetto il rumore del Greyhound sull’asfalto, e adesso gli giungevano soltanto saltuari frammenti di conversazione.

Goldie è, come dire, un bravo cane, un retriever purissimo, se soltanto mio padre dicesse di sì, scondinzola tutte le volte che mi vede.

È Natale, deve lasciarmi usare il gatto delle nevi.

Puoi scrivere il tuo nome con la lingua.

Sandy mi manca.

Sì, manca anche a me.

Hanno detto che ne scenderanno due metri entro sera, ma secondo me si inventano tutto, si inventano le previsioni e nessuno protesta…

Poi i freni sibilarono, l’autista gridò: «Lakeside!», e le porte si spalancarono. Shadow seguì le ragazze nel parcheggio illuminato di un negozio di video e di un centro abbronzatura ancora aperti, che svolgevano anche la funzione di stazione del Greyhound. L’aria era terribilmente fredda, un freddo piacevole che lo svegliò. Rimase a fissare le luci della città da sud fino a ovest e, a oriente, la grande distesa chiara del lago ghiacciato.

Le due ragazze battevano i piedi e si soffiavano vistosamente sulle mani. La più giovane gettò un’occhiata di soppiatto a Shadow e rendendosi conto che lui l’aveva vista gli sorrise imbarazzata.

«Buon Natale» disse Shadow.

«Già» rispose l’altra, che forse aveva un anno di più, «Buon Natale anche a lei.» Aveva i capelli color carota e il naso, camuso, coperto di lentiggini.

«Bella città» disse lui.

«Noi ci stiamo bene» rispose la più giovane. Era quella a cui piacevano gli animali. Sorrise timida mettendo in mostra gli elastici azzurri dell’apparecchio per i denti. «Assomiglia a qualcuno» gli domandò seria: «lei non è fratello, o figlio di qualcuno, o qualcosa del genere?»

«Sei fuori, Alison» le disse l’amica. «Tutti hanno un padre o un fratello o qualche altro parente.»