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Sta ballando.

Shadow scoprì di non essere per niente sorpreso di riconoscere l’uomo che ballava con lei. Non era cambiato molto in trentatré anni.

Lei è ubriaca: Shadow se ne accorge subito. Non tanto, ma non è abituata a bere e tra circa una settimana prenderà una nave che la riporterà in Norvegia. Hanno bevuto qualche margarita, lei ha un po’ di sale sulle labbra e sul dorso della mano.

Wednesday non indossa vestito e cravatta, ma la spilla d’argento a forma d’albero appuntata sul taschino della camicia brilla quando le luci degli specchietti la raggiungono. Sono una bella coppia, considerata la differenza d’età. Nei movimenti di Wednesday c’è una grazia lupesca.

Stanno ballando un lento. Lui la stringe a sé e la sua mano, grande come una zampa, si appoggia alla gonna con un gesto possessivo, avvicinandola. Con l’altra mano la costringe ad alzare il mento e si baciano lì, sulla pista della sala da ballo, mentre le luci girano intorno a loro nel centro dell’universo.

Poco dopo escono. Lei barcolla un po’ e lui la sostiene.

Shadow affonda la testa tra le mani; non può seguirli, non intende assistere al proprio concepimento.

Le luci degli specchietti sono scomparse e adesso l’unica illuminazione è quella gettata dalla minuscola luna che risplende alta sopra la sua testa.

Ancora avanti. Alla curva del sentiero si fermò per un attimo a riprendere fiato.

Una mano gli accarezzava gentilmente la schiena, dita delicate gli spettinavano i capelli sulla nuca.

«Ciao» sussurrò una voce roca e felina alle sue spalle.

«Ciao» disse lui girandosi a guardarla.

Aveva i capelli castani e la pelle scura e gli occhi con quella tonalità ambrata del buon miele. Le pupille erano due fessure verticali.

«Ci conosciamo?» chiese lui stupito.

«Intimamente» rispose lei e sorrise. «Dormivo sempre sul tuo letto, e la mia gente ti ha sorvegliato.»

Si voltò verso il sentiero che si allungava davanti a lui e gli indicò le tre diramazioni. «Bene» disse, «se ne imbocchi una diventerai saggio. In fondo all’altra diventerai un uomo integro. Quell’altra ancora ti ucciderà.»

«Sono già morto, credo» rispose Shadow. «Sono morto sull’albero.»

Lei miagolò. «C’è un modo di essere morto, e un altro, e un altro ancora. È tutto relativo.» Poi sorrise. «Potrei fare una battuta sulle morte che camminano.»

«No» disse Shadow. «Non c’è bisogno.»

«Allora, da quale parte vuoi andare?»

«Non so».

Lei piegò la testa di lato con uno scatto felino e di colpo Shadow ricordò i graffi che gli aveva lasciato sulla schiena. Cominciò ad arrossire. «Se ti fidi di me» disse Bast, «scelgo io per te.»

«Mi fido» rispose lui senza esitazione.

«Vuoi sapere che cosa ti costerà?»

«Ho già perduto il mio nome.»

«Il nome non è per sempre. Ne è valsa la pena?»

«Sì. Forse. Non è stato facile. Ho avuto alcune rivelazioni diciamo molto personali.»

«Tutte le rivelazioni sono personali. Per questo risultano sospette.»

«Non capisco.»

«No, non capisci. Ti prenderò il cuore. Ne avremo bisogno più tardi» e allungò una mano. L’affondò dentro il suo petto e la estrasse con qualcosa color rubino che le pulsava tra le unghie appuntite. Era color sangue di piccione, fatto di pura luce. Si dilatava e si contraeva ritmicamente.

Lei chiuse la mano ed era scomparso.

«Prendi la via di mezzo» disse.

Shadow annuì e proseguì.

Adesso il sentiero stava diventando scivoloso. Il fondo roccioso era coperto da uno strato gelato. La luna brillava tra i cristalli di ghiaccio nell’aria: aveva un anello intorno che diffondeva luce. Era bellissima, ma rendeva il cammino più difficoltoso. Era un sentiero insidioso.

Raggiunse il punto dove si divideva.

Guardò alla prima diramazione con un senso di riconoscimento. Si trasformava in una grande sala, o una sequenza di sale, come un museo buio. Lo conosceva. Gli sembrava di sentire le lunghe eco di rumori leggeri, e il fruscio che fa la polvere quando si posa.

Era il luogo sognato quella prima notte quando Laura era andata a trovarlo nella stanza del motel, tanto tempo prima; l’interminabile sala degli dèi dimenticati e degli dèi della cui esistenza si era perduta ogni traccia.

Fece un passo indietro.

Imboccò l’altro sentiero cercando di scrutare avanti. C’era qualcosa di disneyano nel corridoio: pareti di plexiglas nero con le luci inserite all’interno. Luci colorate che lampeggiavano intermittenti creando, senza nessun motivo particolare, un’illusione di ordine, come fanno le luci della consolle di una navicella spaziale in un telefilm.

C’era rumore anche lì: un ronzio basso che sentiva vibrare nello stomaco.

Si fermò per guardarsi intorno. Nessuna delle due strade sembrava quella giusta. Non più. Aveva chiuso con i sentieri. La via di mezzo, indicata dalla donna gatto, quella era la sua.

Vi si diresse.

La luna cominciava a impallidire: i bordi diventavano più rosei, di lì a poco sarebbe tramontata. Il sentiero era incorniciato da una soglia enorme.

Shadow attraversò l’arco entrando in una zona oscura. L’aria era tiepida e odorava di polvere bagnata come una strada cittadina dopo la prima pioggia estiva.

Non aveva paura.

Non più. La paura era morta sull’albero, insieme a lui. Non rimaneva più paura, né odio o dolore. Non rimaneva più niente eccetto l’essenza.

Da lontano giunse un tonfo soffocato che echeggiò nella vastità del luogo. Shadow si sforzò di vedere senza riuscirci. Era troppo buio. Poi da dov’era venuto il rumore si alzò una luce spettrale e il mondo prese forma: si trovava in una caverna e davanti a lui c’era uno specchio d’acqua.

Il rumore di spruzzi si avvicinò, la luce divenne più forte mentre Shadow aspettava sulla riva. Di lì a poco si profilò un’imbarcazione bassa e piatta; c’era una lanterna bianca appesa al dritto di prua e un’altra riflessa nel vitreo specchio d’acqua. Una figura alta spingeva l’imbarcazione con una pertica e il rumore che Shadow aveva sentito era prodotto dalla pertica quando veniva sollevata e abbassata nell’acqua del lago sotterraneo.

«Ehilà» gridò Shadow. L’eco lo circondò all’improvviso: immaginò un coro di persone che gli davano il benvenuto, che lo chiamavano, ciascuno con una voce uguale alla sua.

La persona sulla barca non rispose.

Era molto alta e molto magra. L’uomo — sempre che si trattasse di un uomo — indossava una semplice tunica bianca e in cima al lungo collo gli si vedeva una testa pallida così poco umana che Shadow fu certo si trattasse di una maschera: era una piccola testa d’uccello con un lungo becco. Shadow era sicuro di aver già visto prima quella figura spettrale simile a un uccello. Rovistò nella memoria, e si rese conto con irritazione che continuava a tornargli in mente il meccanismo nella House on the Rock con lo spettro appena intravisto comparso dietro alla cripta a reclamare l’anima dell’ubriaco.

L’acqua gocciolava dalla pertica e dalla prua e la scia dell’imbarcazione increspava la superficie del lago. Era una barca di giunco.

Si avvicinò all’argine.

Il barcaiolo si appoggiò alla pertica e voltò lentamente la testa fino a guardare Shadow in faccia. «Salve» disse senza muovere il lungo becco. Era una voce maschile e, come tutto il resto accaduto fin lì in quella vita dopo la morte, familiare.

«Sali a bordo. Ho paura che ti bagnerai i piedi, succede sempre. È una vecchia imbarcazione. Se vengo più vicino rischio di sventrarla.»

Shadow si sfilò le scarpe ed entrò in acqua. Gli arrivava a metà polpaccio e dopo l’iniziale stupore la trovò sorprendentemente calda. Quando il barcaiolo gli tese una mano per aiutarlo a salire, lo scafo ondeggiò un po’ imbarcando acqua dalle basse fiancate laterali, poi si stabilizzò. L’uomo usò la pertica per allontanarsi da riva. Shadow rimase a guardare senza far niente, con i pantaloni fradici.