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Una strana gioia lo assalì e cominciò a ridere, mentre la pioggia gli lavava il corpo nudo e i lampi saettavano e i tuoni scoppiavano così rumorosi da impedirgli di sentire la risata. Era esultante.

Era vivo. Non si era mai sentito così. Mai.

Se fosse morto, pensò, se fosse morto in quell’unico perfetto folle istante lì sull’albero, ebbene, ne sarebbe valsa la pena.

«Ehi!» gridò al temporale. «Ehi! Sono io! Sono qui!»

Spingendo una spalla contro il tronco riuscì a intrappolare un po’ d’acqua e girò la testa per berla, leccando, succhiando, e bevendo rideva di gioia e felicità, non di demenza, fino a quando non ci riuscì più, fino a quando non si lasciò andare, troppo sfinito per muoversi.

Per terra, ai piedi dell’albero, la pioggia aveva inzuppato il lenzuolo facendolo diventare quasi trasparente e lo aveva sollevato, allontanandone un lembo dal corpo. Shadow vedeva una mano di Wednesday, morta e cerea, la sagoma della sua testa; pensò alla Sindone conservata a Torino e si ricordò della ragazza sventrata sul tavolo di Jacquel a Cairo, poi come per ripicca contro il freddo scoprì che si sentiva caldo e comodo e che la corteccia dell’albero era diventata morbida. Si riaddormentò e sognò. Questa volta non riuscì a ricordare niente, del sogno.

L’indomani mattina il dolore non era più localizzato, non più confinato ai punti dove le funi gli segavano la carne, o dove la corteccia gli lacerava la pelle. Adesso era diffuso ovunque.

E aveva fame, morsi di fame lancinanti nel ventre. Gli pulsava la testa. Ogni tanto gli sembrava di avere smesso di respirare, immaginava che il suo cuore non battesse più. Allora tratteneva il respiro fino a quando non lo sentiva rumoreggiare nelle orecchie come l’oceano, fino a quando non era costretto a succhiare aria come chi riemerga in superficie dal profondo del mare.

Forse l’albero a cui l’avevano appeso si estendeva dall’inferno al paradiso, e lui era legato lì dall’eternità. Un falco marrone volò intorno ai rami più alti prima di andare ad appollaiarsi su un ramo rotto vicino a Shadow, poi riprese il suo volo verso occidente.

Il temporale, che all’alba era cessato, dopo qualche ora scoppiò di nuovo. Il cielo era interamente coperto di nuvole grige, cadeva una pioggerellina leggera. Il corpo ai piedi dell’albero sembrava essere rimpicciolito dentro il lenzuolo macchiato del motel, come una torta inzuppata che finisce di sciogliersi sotto la pioggia.

In certi momenti a Shadow sembrava di bruciare, in altri moriva di freddo.

Quando ricominciarono i tuoni credette di sentire il suono di tamburi e timpani oltre ai tonfi del cuore, e non capiva se erano dentro la sua testa o fuori.

Percepiva il dolore sotto forma di colore: il rosso dell’insegna al neon di un bar, il verde del semaforo in una notte di pioggia, l’azzurro di uno schermo televisivo quando i programmi sono finiti.

Dal tronco lo scoiattolo saltellò su una spalla di Shadow e gli affondò le unghie nelle carne. «Ratatoskr!» cinguettò. Gli sfiorò le labbra con la punta del naso. «Ratatoskr.» Tornò sull’albero con un balzo.

La pelle di Shadow bruciava come trafitta da aghi e spilli e formicolava dappertutto. Una sensazione intollerabile.

C’era la sua vita stesa lì sotto, sul lenzuolo-sudario del motel: letteralmente stesa, come gli oggetti di un picnic dada, di una scena surrealista: vedeva lo sguardo sconcertato di sua madre, l’ambasciata americana in Norvegia, gli occhi di Laura il giorno del matrimonio…

Ridacchiò, malgrado le labbra screpolate.

«Cosa c’è di così divertente, cucciolo?» gli chiese lei.

«Il giorno che ci siamo sposati» disse «avevi convinto l’organista a non suonare la marcia nuziale mentre percorrevi la navata, ma la colonna sonora di Scooby Doo. Ti ricordi?»

«Certo che ricordo, caro. "I would have made it too, if it wasn’t for those meddling kids"» canticchiò.

«Ti amavo tanto» disse Shadow.

Sentendo le labbra di lei sulle sue, tiepide, bagnate e vive, non fredde e morte, capì di avere un’altra allucinazione.

«Non sei qui, vero?»

«No» rispose lei. «Ma tu mi stai chiamando per l’ultima volta, e io sono arriverò.»

Adesso respirare era diventato più difficile. Le corde che gli segavano la carne erano un concetto astratto, come l’idea di libero arbitrio o eternità.

«Dormi, cucciolo» gli disse lei, ma forse era la sua stessa voce che sentiva, e si addormentò.

Il sole era una moneta di peltro in un cielo di piombo. Shadow impiegò un po’ di tempo prima di accorgersi di essere sveglio e di avere freddo. Però la parte che si rendeva conto di questo era molto lontana dal resto di lui. Chissà dove, lontano lontano, era consapevole di avere bocca e gola in fiamme, riarse, screpolate. A volte vedeva le stelle cadere dal cielo anche di giorno; altre volte uccelli grossi come camion che gli volavano addosso. Niente lo raggiungeva, niente lo toccava.

«Ratatoskr. Ratatoskr.» Il chiacchiericcio era diventato un rimbrotto.

Lo scoiattolo atterrò pesantemente affondandogli gli artigli nella spalla e lo guardò negli occhi. Shadow si domandò se fosse un’allucinazione: nelle zampette anteriori l’animale teneva un mezzo guscio di noce, come la tazza di una casa di bambola. Gli avvicinò la noce alle labbra, Shadow riconobbe l’acqua e istintivamente la succhiò. Le labbra screpolate, la lingua secca la assorbirono. Si inumidì tutta la bocca e poi inghiottì ciò che restava, non molto.

Lo scoiattolo balzò di nuovo sull’albero, lo percorse rapidamente fino a terra e dopo qualche secondo, o minuti, o ore, Shadow non ne aveva idea (tutti gli orologi mentali erano rotti, molle e ruote dentellate ormai gettate alla rinfusa sull’erba agitata dal vento), si arrampicò di nuovo cautamente sull’albero con la sua tazzina di guscio di noce e Shadow bevve l’acqua che gli aveva portato.

Il sapore fangoso e metallico gli rinfrescò la gola riarsa. Alleviava la fatica e placava la follia.

Dopo la terza noce non aveva più sete.

Allora cominciò a lottare, tirando le funi, lacerandosi nel tentativo di liberarsi, di scendere, di fuggire. Gemeva.

I nodi erano ben fatti. Non cedevano e ben presto Shadow si ritrovò un’altra volta sfinito.

Nel delirio divenne l’albero. Le radici sprofondavano nella terra, sprofondavano nel tempo, nelle sorgenti nascoste. Raggiunse la fonte della donna che si chiamava Urdhr, Passato. Era enorme, una gigantessa, una montagna sotterranea di donna, a guardia delle acque del tempo. Altre radici si diramavano in direzioni diverse. Luoghi segreti, in alcuni casi. Adesso quando aveva sete prendeva l’acqua direttamente dalle radici, assorbendola nel corpo del suo essere.

Aveva centinaia di braccia che terminavano con migliaia di dita protese verso il cielo. Il cielo era pesante sulle sue spalle.

Non è che il disagio fosse diminuito, adesso il dolore apparteneva alla figura appesa all’albero, non all’albero stesso. Nella sua follia ora lui era molto più dell’uomo, era l’albero ed era il vento che soffiava tra i rami spogli dell’albero del mondo; era il cielo grigio e le nubi che si addensavano; era Ratatoskr, lo scoiattolo che correva dalle radici più profonde ai rami più alti; era il falco con gli occhi folli seduto su un ramo spezzato a sorvegliare il mondo dall’alto; era il verme nell’albero.

Quando le stelle gli girarono intorno lui passò le sue mille mani sulle luci scintillanti, le accarezzò, le strinse tra le dita, le fece scomparire…

Un momento di lucidità in mezzo a dolore e follia: Shadow riaffiorò in superficie. Sapeva che non sarebbe durato a lungo. Il sole del mattino lo abbagliava. Chiuse gli occhi, rammaricandosi di non poterli proteggere.

Non mancava molto. Sapeva anche questo.

Quando riaprì gli occhi, vide che c’era un giovane appollaiato vicino a lui.