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Shadow salì i nove pioli e sollecitato dalle donne sedette su un ramo basso.

La donna media rovesciò sull’erba il contenuto del sacco: un groviglio di corde sottili e scure perché vecchie e sporche, e cominciò a separarle in base alla lunghezza, disponendole con cura accanto al corpo di Wednesday.

Adesso salirono sulle scale e cominciarono a far passare le corde, fermandole con nodi intricati ed eleganti, prima all’albero e poi intorno a Shadow. Senza alcun imbarazzo, come levatrici o infermiere o quelle pie donne che si prendono cura dei cadaveri, gli sfilarono maglietta e mutande, lo legarono, non troppo stretto, ma in modo sicuro e definitivo. Shadow si stupì di come le funi e i nodi sostenessero perfettamente il suo peso. Gli passavano sotto le braccia, tra le gambe, intorno alla vita, alle caviglie, al petto, fissandolo saldamente all’albero.

L’ultima corda venne passata, non stretta, intorno al collo. All’inizio si sentì scomodo, ma siccome il peso era ben distribuito, nessuna fune gli tagliava la carne.

Era sospeso con i piedi a un metro e mezzo da terra. L’albero, spoglio ed enorme, tendeva i suoi rami verso il cielo grigio, e la corteccia era levigata, argentea.

Le donne allontanarono le scale. Ci fu un momento di panico quando tutto il peso si appoggiò alle corde e il corpo si abbassò di qualche centimetro. Tuttavia Shadow non fiatò.

Le donne adagiarono il corpo di Wednesday avvolto nel lenzuolo del motel proprio ai piedi dell’albero e ve lo lasciarono.

Lo lasciarono lì solo.

15

Impiccami, O impiccami, e sarò morto e sepolto,
Impiccami, O impiccami, e sarò morto e sepolto,
Non mi dispiace essere impiccato ma è essere morto,
e sepolto così a lungo che non mi va.
Vecchia canzone popolare

Quel primo giorno legato all’albero, Shadow provò un disagio che soltanto con molta lentezza diventava dolore, o paura e, di tanto in tanto, un sentimento in bilico tra noia e apatia: un’accettazione supina, un’attesa.

Lui era appeso all’albero.

Il vento soffiava forte.

Dopo alcune ore qualche macchia fuggevole di colore cominciò a esplodergli davanti agli occhi, fioriture rosse e dorate che pulsavano di vita propria.

A poco a poco il dolore alle braccia e nelle gambe divenne intollerabile. Se rilassava gli arti lasciandosi andare in avanti, la corda intorno al collo, sostenendo il peso, lo soffocava e lui vedeva tutto ondeggiare. Perciò cercava di spingersi indietro, contro il tronco dell’albero. Sentiva battere forte il cuore, pompare aritmico il sangue nelle vene…

Gli si cristallizzarono smeraldi, zaffiri e rubini davanti agli occhi. Ansimava. La corteccia dell’albero era ruvida, contro la schiena. Nel freddo del pomeriggio il suo corpo nudo tremava, aveva la pelle d’oca.

È facile, gli disse qualcuno da un ricordo remoto. C’è un trucco. O crepi o ce la fai.

Il pensiero lo rallegrò e se lo ripeté nella testa come un mantra, come una filastrocca per bambini, da recitare a tempo con il battito del suo cuore.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

È facile, c’è un trucco, o crepi o ce la fai.

Il tempo passava e la filastrocca non finiva mai. Gli pareva di sentirla. C’era qualcuno che ripeteva le parole, e si fermava, però, quando la bocca di Shadow era troppo secca, quando la lingua gli diventava dura come il cuoio. Provò a puntellarsi con i piedi al tronco, per riuscire a riempire i polmoni d’aria.

In quella posizione respirò fino a quando riuscì a resistere, poi si lasciò cadere di nuovo sulle funi e lì rimase, appeso all’albero.

Quando il cinguettio cominciò — un cinguettio irritato e carico di derisione — chiuse la bocca, spaventato all’idea di averlo prodotto lui; però il rumore continuava. Allora è il mondo che ride di me, pensò. Aveva la testa piegata da un lato e vide qualcosa percorrere velocemente il tronco per fermarsi proprio vicino al suo collo. Gli cinguettò fragorosamente nell’orecchio una parola che suonava come "ratatoskr". Shadow cercò di ripeterla ma aveva la lingua incollata al palato. Si girò lentamente a guardare il musetto grigio-marrone e le orecchie appuntite di uno scoiattolo.

Visto da vicino, lo scoiattolo è molto meno carino di quel che sembra da una certa distanza: aveva un’aria topesca e pericolosa, niente di tenero. I denti sembravano aguzzi. Shadow sperò che l’animaletto non lo considerasse una minaccia, o qualcosa di cui cibarsi. Non gli pareva che fossero carnivori, gli scoiattoli… ma del resto tante cose si erano rivelate completamente diverse da come immaginava…

Si addormentò.

Nelle ore immediatamente successive il dolore lo svegliò più volte strappandolo da un sogno buio in cui dei bambini morti galleggiavano verso di lui: avevano gli occhi gonfi, vitrei e rotondi come biglie, e lo rimproveravano di averli abbandonati. Un ragno lo svegliò camminandogli sulla faccia. Scosse la testa per mandarlo via, per spaventarlo, e ritornò ai suoi sogni: adesso c’era una creatura con la testa da elefante, un pancione, una zanna rotta, che si avvicinava in groppa a un enorme topo. Davanti a Shadow sollevò la proboscide e disse: «Se prima di cominciare questo viaggio tu mi avessi invocato, forse ti sarebbero stati risparmiati molti guai». Poi l’elefante prese il topo, che all’insaputa di Shadow era diventato minuscolo senza per questo aver cambiato dimensioni, e cominciò a passarselo da una mano all’altra, a farlo scorrere tra le dita, da un palmo all’altro, e Shadow non si sorprese quando alla fine il dio con la testa da elefante mostrò tutte e quattro le mani perfettamente vuote. Le scrollò, poi mosse le braccia, una dopo l’altra, con particolare scioltezza e restò a guardare Shadow con un’espressione impenetrabile.

«È nella proboscide» gli disse lui. Aveva visto bene la coda scomparire con un guizzo. L’uomo-elefante annuì con il testone e disse: «Sì. Nella proboscide o nel baule della macchina. Dimenticherai molte cose. Perderai molte cose. Darai via molte cose. Ma non perdere queste». Cominciò a piovere e Shadow, in preda ai brividi, bagnato fino alle ossa, fu scaraventato dal sonno profondo in uno stato di lucida veglia. I brividi si intensificarono fino a spaventarlo: tremava con più violenza di quanto avrebbe creduto possibile fare, una serie di brividi che erano quasi convulsioni. Si sforzò di smettere ma non ci riusciva, ì denti battevano, gli arti erano in preda a spasmi incontrollabili. Adesso sentiva anche un vero dolore, come una lama affondata in profondità che gli ricopriva il corpo di minuscole ferite invisibili, intime e intollerabili.

Aprì la bocca per catturare qualche goccia d’acqua con cui bagnare le labbra screpolate e la lingua secca; anche le corde che lo tenevano al tronco dell’albero si inumidirono. Vide il bagliore di un lampo così luminoso, un colpo troppo forte per gli occhi, che trasformò il mondo in un panorama potente: immagini e immagini persistenti. Poi tuono, scoppio, esplosione e rombo fragoroso, e, mentre il rombo echeggiava, la pioggia cominciò a scendere più intensa. Durante la notte i brividi cessarono; le lame di coltello vennero riposte nei loro foderi. Shadow non sentiva più freddo, o meglio sentiva soltanto freddo, però adesso il freddo era diventato parte di lui.

Era appeso all’albero, con i lampi che squarciavano il cielo e i rombi del tuono che si trasformavano in un fragore continuo con occasionali punte più alte, come bombe lontane esplose nella notte. Il vento lo sferzava, lo scorticava, cercava di strapparlo all’albero e Shadow, nel fondo dell’anima, capì che la tempesta era scoppiata davvero.