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— Susan, come puoi parlare così? Mi meraviglio di te — la riprese Lucy, lanciandole un’occhiata di rimprovero. I due ragazzi, del resto, erano tanto eccitati da non tenere in nessuna considerazione il consiglio di Susan. Cominciarono a darsi da fare per togliere l’edera, prima con le mani e poi aiutandosi con il coltellino di Peter, fino a che si spezzò. Quindi usarono il temperino di Edmund, mentre lo spazio dove erano seduti prima si copriva di foglie. Alla fine, comparve la porta.

— È chiusa, naturalmente — disse Peter.

— Sì, però il legno è marcio — aggiunse Edmund. — Possiamo buttarla giù in un batter d’occhio, così avremo altra legna da ardere. Avanti, tutti insieme!

Occorse più tempo del previsto, e prima che avessero portato a termine l’operazione, la notte calò sulla grande sala e una stella dopo l’altra si accese sui quattro fratelli. Susan non fu l’unica a tremare, quando vide i ragazzi con i piedi sulla porta fatta a pezzi, intenti a pulirsi le mani e a fissare il buco freddo e buio che si apriva davanti a loro.

— Ci vuole la torcia.

— Siate ragionevoli. Come ha detto Edmund…

— Stavolta non ho detto niente — la interruppe Ed. — Veramente ci sono ancora delle cose che non capisco, ma ci penserò più tardi. Direi che tu abbia voglia di scendere, vero, Peter?

— Dobbiamo farlo — rispose l’altro ragazzo. — Avanti, Susan, non fare così. Non è bello comportarsi da ragazzini ora che siamo tornati a Narnia. Qui tu sei una regina, ricorda, e nessuno riuscirebbe a dormire con un mistero del genere per la mente.

Provarono a servirsi di lunghi bastoni come fossero torce, ma l’esperimento non funzionò: se li tieni con la punta accesa verso l’alto si spengono subito, se rivolgi la punta accesa a te, ti bruci le mani e il fumo ti va negli occhi. Così, alla fine usarono la torcia elettrica di Edmund. Per fortuna gliela avevano regalata meno di una settimana prima, per il suo compleanno, e le pile erano ancora nuove. Edmund andò avanti con la torcia in mano. Dopo di lui venivano Lucy, Susan e Peter in retrovia.

— Ecco, qui cominciano i gradini — disse Edmund.

— Contali — suggerì Peter.

— Uno, due, tre — proseguì Edmund, scendendo con la dovuta cautela. Ne contò sedici, poi gridò agli altri: — Sono arrivato in fondo.

— Sì, è Cair Paravel. Anche là c’erano sedici gradini — ricordò Lucy. Nessuno parlò fino a quando si trovarono insieme ai piedi della scala. Edmund illuminò con la torcia lo spazio circostante: — Oh! — esclamarono in coro.

Erano certi che fosse l’antica camera del tesoro di Cair Paravel, dove un giorno avevano regnato come re e regine di Narnia. Al centro della stanza sì vedeva una specie di sentiero (come nelle serre) e lungo i lati, a intervalli regolari, magnifiche armature complete, come cavalieri a guardia del tesoro. Fra le armature, su ciascun lato del sentiero, c’erano mensole coperte di oggetti preziosi: collane, bracciali, anelli, recipienti e piatti d’oro zecchino, lunghe zanne d’avorio, spille, diademi e catene d’oro, mucchi di pietre grezze ammassate come se fossero sacchi di patate e ancora diamanti, rubini, smeraldi, topazi e ametiste. Sotto le mensole c’erano grandi casse in legno di quercia, chiuse ermeticamente con enormi e pesanti sbarre di ferro. Faceva un freddo tremendo, e il silenzio era così irreale che i quattro ragazzi potevano sentirsi respirare. I tesori erano talmente coperti di polvere che, se non avessero ricordato come e dove erano stati sistemati, sarebbe stato impossibile capire che erano oggetti di inestimabile valore e parte di un patrimonio favoloso. Era un ambiente che metteva paura e malinconia, forse perché tutto sembrava dimenticato e abbandonato da tempo. Nessuno parlò per un minuto buono, poi i ragazzi cominciarono ad andare avanti e indietro, prendendo gli oggetti per guardarli meglio. Era come incontrare dei vecchi amici.

Se anche voi foste stati laggiù, lettori miei, avreste sentito i nostri eroi esclamare: — Guardate, gli anelli che abbiamo usato per la nostra incoronazione. Ricordate la prima volta che abbiamo messo questo? È il piccolo diadema che credevamo perduto… E quella, non è l’armatura che ho portato nel gran torneo delle Isole Solitarie? So che i nani la fecero per me. Accidenti, date un’occhiata: è il corno con cui brindavamo, vero?

Poi Edmund disse: — Ragazzi, dobbiamo fare attenzione a non scaricare le pile. Dio sa quanto ne avremo bisogno! Non ci conviene prendere quello che desideriamo e risalire?

— Dobbiamo prendere i doni — disse Peter. A Natale, quando erano arrivati a Narnia, Susan, Lucy e Peter avevano ricevuto magnifici regali che a parer loro valevano più del regno. Edmund non ne aveva avuti perché in quel momento non si trovava con i fratelli (la colpa era sua, e se leggerete l’altro libro saprete il perché).

Furono tutti d’accordo con Peter, e attraverso quella specie di sentiero raggiunsero la parete estrema della stanza del tesoro, dove erano conservati i regali. Quello di Lucy era il più piccolo: una bottiglietta non di vetro, ma di diamante, piena fin quasi a metà della magica pozione che può curare qualsiasi malattia e rimarginare ogni ferita. Lucy non disse niente e con fare solenne prese il dono dal luogo in cui era conservato, mise la cintura intorno al collo e vi appese la bottiglietta, come faceva ai vecchi tempi. Un arco, delle frecce e un corno erano il dono di Susan. L’arco era al suo posto e le frecce ornate di piume nella custodia d’avorio, ma Lucy chiese: — Susan, dov’è il corno?

— Accidenti e accidenti — si lamentò Susan dopo aver riflettuto qualche istante. — Adesso mi viene in mente: l’ultimo giorno lo portai con me. Ricordate, fu quando andammo a caccia del cervo bianco. Devo averlo perduto quando rientrammo nell’altro posto… ehm, in Inghilterra, voglio dire.

Edmund fischiò. Eh, sì, era veramente una gran perdita, perché si trattava di un corno magico. Quando lo suonavi, ovunque tu fossi e in qualunque situazione ti trovassi, qualcuno veniva in tuo aiuto.

— Il corno era quello che ci vorrebbe, in un posto come questo — disse Edmund.

— Non ti preoccupare, ho ancora l’arco. — E Susan lo strinse.

— Non credi che la corda sia allentata? — chiese Peter.

Sarà stata la magia che regnava nella stanza del tesoro, o forse qualcos’altro, ma l’arco era in condizioni perfette. Susan era molto abile nel nuoto e nel tiro, in un attimo tese l’arco e pizzicò leggermente la corda. La vibrazione rimbombò nella stanza e fu quel suono, più di ogni altro avvenimento della giornata, a riportare la memoria dei ragazzi indietro ai giorni gloriosi. Le battaglie, le cacce e i banchetti più sontuosi balenarono nella mente dei quattro, avanti e indietro. Poi Susan allentò l’arco e sistemò la custodia al fianco.

Fu il turno di Peter: prese i suoi doni, lo scudo con il grande leone rosso e la spada reale. Ci soffiò sopra e li depose a terra per togliere la polvere che li copriva, dopodiché imbracciò lo scudo e si mise la spada al fianco. Per un attimo ebbe paura che si fosse arrugginita e difficile da estrarre; per fortuna non era così e la sguainò con un solo movimento, sollevandola in alto perché brillasse alla luce della torcia.

— Ecco Rhindon, la mia spada — esclamò. — Con questa ho ucciso il lupo. — Peter aveva parlato con un tono di voce molto diverso da prima, e i fratelli capirono che si trovavano di nuovo al cospetto del Re supremo.

Tacquero per qualche istante, poi ricordarono che dovevano stare attenti a non scaricare le pile.

Tornarono in superficie, accesero un gran fuoco e sedettero l’uno accanto all’altro per scaldarsi. Il selciato era duro e decisamente poco confortevole, ma alla fine caddero tutti e quattro in un sonno profondo.