Si avvicinò a Zhiv, cercando di far coraggio a lui e a se stessa. Era atterrita dal suo umore cupo, dal suo dolore, dalla sua muta rassegnazione al tradimento. Ma non era tradimento! Respinse subito quella parola. Non avrebbe mai potuto tradirlo. Erano innamorati. Si amavano. Lui l'avrebbe seguita dopo uno, al massimo due anni. Erano adulti, non potevano restarsene aggrappati insieme come bambini. Le relazioni tra adulti sono basate sulla libertà reciproca. Si diceva tutto questo mentre si rivolgeva a Zhiv. Lui disse di sì, l'abbracciò, la confortò. Durante la notte, nel silenzio solenne del deserto, il rombo del sangue nelle orecchie, Zhiv giacque insonne e pensò, È morto senza essere nato. Non è mai stato concepito.

Rimasero insieme nel loro piccolo alloggio alla Scuola durante le poche settimane precedenti la partenza di Tiu. Facevano l'amore con cautela, con dolcezza, parlavano di storia, di economia, di etnologia, si tenevano occupati. Tiu si doveva preparare a lavorare con il gruppo con cui sarebbe partita, e studiava il concetto terrestre di gerarchia. Zhiv doveva stendere una relazione sull'energia generata dall'interazione sociale su Werel. Lavorarono sodo. I loro amici organizzarono una grande festa d'addio per Tiu. Il giorno dopo Zhiv l'accompagnò al porto di Ve. Lei lo baciò e l'abbracciò, raccomandandogli di sbrigarsi, di far presto a raggiungerla su Terra. Lui la guardò salire a bordo del razzo che l'avrebbe condotta sull'astronave NAFAL che attendeva in orbita. Tornò nell'appartamento nel Recinto Sud della Scuola. Un amico lo trovò lì tre giorni dopo, seduto alla sua scrivania, in una strana condizione: abulico, lentissimo nel parlare, sempre che fosse disposto ad aprir bocca, incapace di mangiare e di bere. Provenendo egli stesso da un villaggio, l'amico comprese in che stato era e chiamò il guaritore (gli Hainesi non li chiamavano dottori). Constatato che veniva da uno dei villaggi del Sud, il guaritore gli disse, «Havzhiva! Il tuo dio non può morirti dentro quaggiù!»

Dopo un lungo silenzio il giovane rispose piano, con voce che non pareva affatto la sua, «Voglio tornare a casa!»

«Non è possibile in questo momento,» disse il guaritore. «Ma possiamo organizzare un Canto della Permanenza, mentre cerco qualcuno in grado di comunicare col dio.» Prontamente lanciò un appello agli studenti originari dei Popoli del Sud. Risposero in quattro. Stettero tutta la notte seduti con Havzhiva intonando il Canto della Permanenza in due lingue e quattro dialetti, finché Havzhiva si unì a loro in un quinto dialetto, mormorando con voce roca le parole finché non crollò e dormì per trenta ore di seguito.

Si risvegliò nella sua stanza. Accanto a lui una donna anziana intratteneva una conversazione, con nessuno in particolare. «Tu non sei qui,» stava dicendo. «No, ti sbagli, tu non puoi morire qui. Non sarebbe giusto, sarebbe un grosso errore. Tu lo sai. Questo è il posto sbagliato. Questa è la vita sbagliata. Lo sai bene! Cosa ci fai qui? Ti sei perduto? Vuoi sapere la strada di casa? Ecco! Ascoltami!» Cominciò a cantare, con voce esile e acuta, una nenia quasi priva di cadenza e quasi senza parole che suonava familiare a Havzhiva, come se l'avesse sentita tanto tempo prima. Si addormentò di nuovo mentre l'anziana signora continuava a parlare con nessuno.

Quando si risvegliò era andata via. Non seppe mai chi fosse né di dove venisse, non lo chiese mai. Aveva parlato e cantato nella sua lingua, nel dialetto di Stse.

Non stava più per morire, adesso, ma stava molto male. Il guaritore lo fece ricoverare all'ospedale di Tes, il posto più bello di tutto Ve, un'oasi in cui sorgenti d'acqua calda e una cerchia di colline creano un'isola dal clima mite dove possono crescere fiori e foreste. Ci sono sentieri che si intrecciano senza fine sotto i grandi alberi, caldi laghi dove nuotare all'infinito, piccoli stagni brumosi da cui si levano in volo cantando gli uccelli, calde sorgenti avvolte nei vapori, e mille cascate la cui voce è l'unico suono della notte. Era stato mandato lì per restarvi finché fosse guarito.

Dopo circa venti giorni di soggiorno a Tes, cominciò a incidere sul suo taccuino. Si sedeva al sole, sui gradini della sua casetta di legno in una radura di erbe e di felci e si parlava sottovoce tramite il piccolo registratore. «Gli elementi tra cui devi scegliere per narrare la tua storia non sono niente di meno del tutto,» disse guardando i rami dei vecchi alberi nereggianti contro il cielo. «Gli elementi dai quali costruisci il tuo mondo, il tuo mondo particolare, comprensibile, logico e coerente, non sono niente di meno del tutto. Perciò ogni scelta è arbitraria. Ogni sapere è parziale, infinitamente parziale. La ragione è una rete gettata nell'oceano. La verità che riporta in superficie non è che un frammento, un riflesso, una scintilla della verità totale. L'intera conoscenza umana è particolare. Ogni vita, ogni vita umana, è particolare, arbitraria, uno sprazzo infinitesimale e momentaneo di…» Si interruppe, rimase in silenzio della radura fra i grandi alberi.

Dopo quarantacinque giorni rientrò alla Scuola. Si trasferì in un altro appartamento. Cambiò settore di studi, abbandonando le scienze sociali, il campo di Tiu, per quello dei servizi sociali ecumenici, strettamente collegato dal punto di vista teorico, ma che conduceva a un diverso tipo di lavoro. Il cambiamento avrebbe prolungato la sua permanenza alla Scuola di almeno un anno, dopodiché, se avesse conseguito buoni risultati, avrebbe potuto sperare in un incarico nell'Ekumene. Li conseguì, e dopo due anni gli fu chiesto, con la formula di cortesia in uso nei consigli dell'Ekumene, se era disposto ad andare su Werel. Sì, rispose, era disposto. Gli amici organizzarono per lui una grande festa d'addio.

«Credevo che puntassi a Terra!» disse la più sprovveduta delle sue compagne di studi. «Tutte queste faccende di guerra, schiavitù, divisioni per classi, per casta e per sesso, non sono forse la storia di Terra?»

«Sono fenomeni diffusi anche su Werel,» rispose Havzhiva. Non era più Zhiv. Era tornato dall'Ospedale col nome di Havzhiva.

Qualcuno pestò un piede alla sprovveduta, ma lei non ci fece caso. «Credevo che volessi seguire Tiu,» disse quest'ultima, «e che per questo non fossi mai stato con nessun'altra. Oh, se l'avessi immaginato prima!» Gli altri trasalirono, ma Havzhiva sorrise e abbracciò la ragazza come per chiederle scusa.

Tutto era chiaro, nella sua mente. Come lui aveva tradito e abbandonato Iyan Iyan, così Tiu aveva tradito e abbandonato lui. Non c'era modo di tornare indietro né di andare avanti. Quindi doveva procedere di traverso. Per quanto fosse uno di loro, non poteva più tornare a vivere tra il Popolo, per quanto fosse diventato uno di loro, non voleva vivere insieme agli storici. Quindi doveva andare a vivere con gli Alieni.

Non aveva alcuna speranza di gioia. L'aveva guastata, pensò. Ma sapeva che i due lunghi, intensi tirocini cui aveva dedicato la sua vita, quello sugli dèi e quello di storia, gli avevano procurato una conoscenza fuori del comune, che poteva essere utilmente impiegata da qualche parte, e sapeva che il corretto uso della conoscenza è la soddisfazione interiore.

Il guaritore andò a visitarlo il giorno prima della partenza, lo esaminò, poi rimase seduto per un po' senza dir niente. Havzhiva sedette con lui. Era stato tanto a lungo abituato al silenzio da dimenticarsi ancora, qualche volta, che non era pratica comune tra gli storici.

«Cosa c'è che non va?» chiese il guaritore. Sembrava una domanda retorica, dal tono pensoso della voce. In ogni modo, Havzhiva non rispose.

«Alzati in piedi, per favore,» disse il guaritore e quando Havzhiva si fu alzato, «Adesso cammina un po'». Fece qualche passo, mentre il guaritore lo osservava. «Sei sbilanciato. Te n'eri accorto?»

«Sì.»

«Potrei mettere insieme un Canto della Permanenza per stasera.»

«Non importa,» disse Havzhiva. «Sono sempre stato fuori equilibrio.»