Dopo un po' lui rispose, «La mia famiglia possiede circa venticinque proprietà».

«Non cavillare.»

Lui accettò il rimprovero.

«Mi sembra che voi escludiate il contatto umano. Non toccate gli schiavi, gli schiavi non vi toccano nel modo in cui gli umani dovrebbero toccarsi a vicenda. Dovete restare separati, sempre attenti a mantenere quella separazione. Perché non è una separazione naturale, è totalmente artificiale, creata dall'uomo. Io non riesco a distinguere possidenti e proprietà dall'aspetto fisico, e tu?»

«Quasi sempre.»

«Grazie a indizi culturali e di comportamento, vero?»

Dopo averci pensato su un po' Teyeo annuì.

«Voi siete della stessa specie, razza, popolo, esattamente uguali in tutto tranne una leggera differenza nel colore. Se tu fai crescere un bambino proprietà come un possidente, diventerebbe un possidente sotto ogni punto di vista e viceversa, quindi passi la vita mantenendo questa divisione tremenda che non esiste, e non capisco come faccia a non accorgerti di quanto sia tutto terribilmente inutile, e non voglio dire dal punto di vista economico.»

«Durante la guerra…» disse lui, e poi ci fu una lunga pausa. Nonostante Solly avesse molte altre cose da dire, aspettò incuriosita. «Io ero su Yeowe, sai, la guerra civile.»

È lì che ha raccolto tutti quei graffi e le cicatrici, pensò lei. Per quanto guardasse altrove con scrupolo, ormai le era impossibile non provare una certa familiarità col suo corpo snello di onice. Lei sapeva che nell'aiji lui era costretto a proteggere il braccio sinistro, a cui mancava una grossa parte di muscolo sopra il bicipite. «Gli schiavi delle colonie si ribellarono, questo lo sai. All'inizio solo alcuni, poi tutti, quasi tutti. A quel tempo noi dell'esercito eravamo tutti possidenti, non potevamo mandare soldati-proprietà, che avrebbero potuto disertare. Eravamo tutti veot e volontari, possidenti contro proprietà. Stavo combattendo i miei simili, lo compresi subito. Successivamente capii che stavo combattendo i miei superiori. Erano loro che ci avevano fatto perdere.»

«Ma quello…» disse Solly e si fermò. Non sapeva più cosa dire.

«Ci hanno fatto perdere dall'inizio alla fine,» proseguì lui, «soprattutto perché il mio governo non capiva che quelli potevano farcela, e che combattevano meglio e più strenuamente e con più intelligenza e coraggio di quanto non facessimo noi.»

«Perché stavano combattendo per la loro libertà!»

«Forse,» concesse lui, educatamente.

«E allora?»

«Ti volevo solo dire che rispetto la gente contro cui ho combattuto.»

«So così poco della guerra, del modo di combattere,» disse lei con un misto di pentimento e irritazione. «Anzi, niente in realtà. Ero su Kheakh, ma quella non era guerra. Era suicidio razziale, una carneficina di massa di un'intera biosfera. Credo ci sia differenza. Fu allora che l'Ekumene decise per la Convenzione sulle Armi. E lo sai perché? A causa di Kheakh e Orint che si distruggevano da soli. I Terrestri spingevano per la convenzione da secoli. Dopo che si erano quasi suicidati anche loro. Io sono mezza terrestre, i miei antenati andavano in giro per il loro pianeta ammazzandosi tra di loro. Per millenni. Erano padroni e schiavi. Anche loro, molti di loro. Ma non so se la convenzione sia stata una buona idea, se sia stata giusta. Chi siamo noi per dire a qualcuno cosa fare e cosa non fare? L'idea dell'Ekumene era di offrire una scappatoia. Di aprire la strada, non di sbarrarla.»

Lui ascoltò con attenzione, ma parlò dopo una lunga pausa. «Abbiamo imparato a serrare i ranghi… sempre. Hai ragione tu, immagino, è uno spreco di energia. Tu hai una mentalità aperta.»

Quelle parole gli saranno costate molto, pensò lei, non come le sue, che le erano uscite come se niente fosse. Lui parlava come se le frasi gli uscissero dal profondo delle ossa. Era una specie di complimento solenne che lei accettò con gratitudine, perché più i giorni passavano più lei si accorgeva occasionalmente di quanta fiducia avesse perso e continuava a perdere. Fiducia in se stessa. Fiducia nel fatto che sarebbero stati riscattati, salvati, che sarebbero usciti da quella cella, che ne sarebbero usciti vivi.

«La guerra era molto brutale?»

«Sì,» rispose lui, «non posso… non sono mai stato in grado di… di percepirla. È solo un lampo…» Teneva le mani alzate come per coprirsi gli occhi. Poi le lanciò un'occhiata sospettosa. Il suo autorispetto apparentemente incrollabile era vulnerabile in molti punti, e adesso lei lo capiva.

«Cose di Kheakh che non sapevo neanche di aver visto. Avvengono così,» disse lei dopo un po'. «Di notte. Per quanto tempo ci sei stato?»

«Sette anni.»

Lei sobbalzò. «Ti è andata bene?»

Era una domanda bizzarra, che non le era uscita nel modo in cui intendeva, ma lui rispose comunque. «Sì,» disse. «Sempre. Gli uomini con cui sono arrivato là sono morti. Quasi tutti nei primi anni. Abbiamo perso trecentomila uomini su Yeowe, non ne hanno mai parlato, due terzi dei veot del Voe Deo sono stati uccisi. Se sopravvivere si può considerare una fortuna, allora io sono stato fortunato.» Si guardò le mani strette sul proprio corpo. Dopo un po', Solly disse con voce suadente, «Spero che tu lo sia ancora».

Lui non rispose.

«Quanto è passato?» le chiese. E lei rispose, schiarendosi la gola, dopo un'occhiata automatica all'orologio, «Sessanta ore».

I loro rapitori non erano arrivati il giorno prima a quella che era ormai diventata l'ora classica, alle otto del mattino, e neppure quella mattina.

Senza più niente da mangiare e ormai privi d'acqua, erano diventati sempre più silenziosi e inerti. Erano passate delle ore senza che nessuno aprisse bocca. Lui aveva smesso di chiedere l'ora.

«È orribile,» disse lei «È così orribile. Continuo a pensare…»

«Non ti abbandoneranno,» disse lui. «Sentono la responsabilità.»

«Perché sono una donna?»

«In parte.»

«Merda.»

Lui si ricordò che in passato le sue volgarità lo offendevano.

«Sono stati presi, ammazzati, nessuno si è preoccupato di scoprire dove ci tenevano,» disse lei.

Avendo pensato la stessa cosa centinaia di volte, lui non replicò.

«Ma è un posto così orrendo in cui morire,» disse lei. «È sordido. Io puzzo, puzzo da venti giorni, ora mi sento la diarrea perché ho paura ma non riesco a cagare. Ho sete e non posso bere.»

«Solly,» disse Teyeo con tono fermo. Era la prima volta che la chiamava per nome. «Stai calma, tieniti salda.»

Lei lo guardò.

«Tieniti salda a che cosa?»

Lui non rispose subito, e lei disse, «Tu non ti fai nemmeno toccare!»

«Non intendevo a me,» disse lui.

«E allora a che cosa? Non c'è niente.» Lui temeva che sarebbe scoppiata in lacrime, ma invece Solly si alzò, prese il vassoio vuoto e lo sbatté contro la porta fino a che non si spaccò in tanti frammenti di vimini e polvere. «Venite, Dio vi maledica, venite, bastardi!» urlava. «Fateci uscire di qua!»

Dopodiché si sedette di nuovo sul materasso. «Bene,» disse.

«Ascolta,» disse Teyeo.

Avevano teso l'orecchio altre volte, ma nessun rumore di città era mai arrivato in quella cella, ovunque si trovasse. Stavolta era qualcosa di più grande. Esplosioni, pensarono entrambi.

La porta tremò. Erano entrambi in piedi quando si aprì, non con il solito fragore ma lentamente. Un uomo aspettò fuori, due entrarono, uno dei quali armati. Non l'avevano mai visto prima. L'altro, il giovane dalla faccia dura che chiamavano il "portavoce", sembrava che avesse corso o lottato, era tutto coperto di polvere, stremato, un po' confuso. Chiuse la porta. Aveva dei fogli in mano. I quattro si fissarono in silenzio per un istante.

«Acqua,» disse Solly. «Bastardi!»

«Signora,» disse il portavoce, «mi dispiace.» Non la stava nemmeno ascoltando. I suoi occhi non erano rivolti a lei, stavano guardando Teyeo per la prima volta. «Ci sono molti disordini,» disse lui.