Quando si sentì meglio, andò alla porta e ne controllò i cardini, la serratura e la superficie. Palpò e scrutò le pareti di mattoni, il pavimento di cemento, cercando chissà che, qualcosa con cui scappare, qualcosa… Avrebbe dovuto fare esercizio. Si sforzò di muoversi, ma il malessere tornò e con esso l'apatia. Tornò a sedersi sul materasso. Dopo un po' s'accorse che stava piangendo. Dopo un po' scoprì di avere dormito. Doveva pisciare. Si accucciò sul buco e ascoltò l'urina che ci cadeva dentro. Non c'era niente con cui pulirsi. Tornò a letto e si sedette allungando i muscoli, tenendosi le caviglie fra le mani. C'era un silenzio totale.

Si girò a guardare l'uomo. Lui la stava osservando, poi si voltò dall'altra parte. Giaceva ancora mezzo puntellato contro il muro, scomodo ma rilassato.

«Hai sete?» gli chiese.

«Grazie,» disse lui. In quel luogo, dove niente era familiare e il tempo era separato dal passato, la sua voce dolce e leggera era benvenuta, nella sua familiarità. Lei gli versò una tazza piena e gliela porse. Lui riuscì a sedersi più comodamente per bere. «Grazie,» bisbigliò ancora, restituendole la tazza.

«Come va la testa?»

Lui si portò la mano al bernoccolo, fece una smorfia e si lasciò andare sulla schiena.

«Uno di loro aveva un bastone,» gli disse, vedendolo come in un déjà vu, nel guazzabuglio dei suoi ricordi. «Un bastone pastorale. Tu hai assalito l'altro.»

«Mi hanno preso la pistola,» disse lui. «La festa.» Teneva gli occhi chiusi.

«Sono rimasta intrappolata in quei dannati vestiti, non ti potevo aiutare. Senti, c'è stato un rumore? Un'esplosione?»

«Sì, forse uno stratagemma per distrarre l'attenzione.»

«Chi pensi che siano questi ragazzi?»

«Rivoluzionari. Oppure…»

«Hai detto che pensavi fosse coinvolto il governo del Gatay.»

«Non lo so,» mormorò lui.

«Avevi ragione, e io avevo torto. Mi dispiace,» disse lei con una sensazione virtuosa al pensiero di chiedere scusa.

Lui mosse la mano lentamente, come per dire "non importa".

«Ci vedi ancora doppio?»

Lui non rispose. Stava di nuovo per perdere i sensi.

Solly era in piedi, cercando di ricordarsi gli esercizi di respirazione Selish, quando la porta si aprì rumorosamente, ed entrarono gli stessi tre uomini, due di loro armati, tutti giovani di pelle scura, capelli corti, molto nervosi. Il capo appoggiò un altro vassoio per terra. Senza la minima premeditazione, Solly gli pestò la mano con tutto il peso. «Aspettate!» disse. Fissò i volti e le canne delle pistole degli altri due. «Aspettate un momento, ascoltate! Lui ha una ferita alla testa, abbiamo bisogno di un dottore, abbiamo bisogno di altra acqua, non riesco neanche a pulirgli la ferita, non c'è carta igienica. Chi diavolo siete?»

Quello a cui aveva pestato stava urlando. «Si sposta, Signora! Spostare dalla mia mano!» Ma gli altri l'avevano sentita. Lei sollevò il piede e si spostò mentre lui si alzava velocemente, ritornando accanto ai suoi compagni armati. «Va bene, Signora. Ci dispiace creare problemi,» disse con le lacrime agli occhi, cullandosi la mano. «Siamo Patrioti. Tu mandare nostro messaggio a quell'impostore del re, e nessuno si farà male. Va bene?» Continuò ad arretrare, poi uno degli uomini con la pistola chiuse la porta. Crash!

Lei, dopo un respiro profondo, si girò. Teyeo la stava guardando. «È stato molto pericoloso,» disse con un mezzo sorriso.

«Lo so,» fece lei, respirando a fatica. «E anche stupido. Non riesco a controllarmi. Mi sento a pezzi, ma buttano dentro la roba e scappano, accidenti. Ci serve dell'acqua!» Era in lacrime, come le capitava sempre dopo una crisi violenta o una lite. «Vediamo cosa ci hanno portato questa volta.» Sollevò il vassoio sul materasso. Come l'altro, in una finzione ridicola di servizio alberghiero o di casa con schiavi, era coperto da un tovagliolo. «Tutte le comodità!» mormorò. Sotto il tovagliolo trovò un mucchio di pasticcini, uno specchietto di plastica, un pettine, un piccolo contenitore con qualcosa che puzzava come fiori marciti, e una scatola di quelli che identificò dopo un attimo come assorbenti gatayani.

«È roba da donna,» disse lei. «Gli venga un accidente, che bastardi! Uno specchio!» Lanciò l'oggetto dall'altra parte della stanza. «Naturalmente non riesco a sopravvivere un giorno senza guardarmi allo specchio. Al diavolo!» Lanciò tutto, tranne le paste, sapendo che avrebbe preso gli assorbenti e se li sarebbe messi sotto il materasso e li avrebbe usati, in caso di necessità, se fossero dovuti restare là per molto tempo, Dio ce ne scampi! Quanto sarebbe stato? Dieci giorni o di più? «Dio mio,» ripeté. Si alzò, raccolse tutto, mise lo specchio, il contenitore, la caraffa e le bucce di frutta dell'ultimo pasto su uno dei vassoi, che appoggiò vicino alla porta. «Rifiuti,» disse lei in voedeano. S'era appena accorta che la sua sfuriata era stata fatta in un'altra lingua, probabilmente la lingua di Alterra. «Hai una pallida idea,» disse, sedendosi di nuovo sul materasso, «di quanto rendete difficile a una donna essere una donna? Sareste capaci di convincere una signora a desiderare di cambiar sesso!»

«Penso che le loro intenzioni fossero buone,» disse Teyeo. Lei si accorse che non c'era la minima ombra di scherno o di divertimento nella sua voce. Se lui si stava divertendo della sua vergogna, si vergognava di mostrarlo. «Penso che siano dei principianti,» aggiunse.

Dopo un po' lei disse, «Ciò potrebbe essere un male».

«Forse,» disse lui. Teyeo si era seduto e si toccava il bernoccolo sulla testa. I suoi capelli duri e ruvidi erano tutti incrostati di sangue. «Rapimento,» aggiunse. «Richiesta di riscatto. Non sono assassini, non avevano delle pistole. Non sarebbero potuti entrare con le pistole. Anch'io ho dovuto cedere la mia.»

«Vuoi dire che non sono quelli contro cui eri stato avvertito?»

«Non lo so.» Le sue esplorazioni gli scatenarono un tremito di dolore, perciò desistette. «Abbiamo davvero poca acqua?»

Lei gli portò un'altra tazza piena. «Troppo poca per lavarsi. Cosa ce ne facciamo di quel maledetto stupido specchio quando quello che ci serve è l'acqua?»

Lui la ringraziò, bevve e si risedette, centellinando quello che era rimasto nella tazza. «Il loro piano non prevedeva la mia cattura,» disse.

Lei ci pensò su e annuì. «Avevano paura che li identificassi?»

«Se avessero un posto per me non mi metterebbero qui con una signora.» Parlava senza la minima ironia. «Questo buco era pronto per lei. Dovremmo trovarci da qualche parte della città.»

Solly annuì. «La scarrozzata in macchina è durata meno di mezz'ora, ma avevo la testa in un sacco.»

«Hanno mandato un messaggio al palazzo. Non hanno avuto risposta o forse ne hanno avuta una poco soddisfacente. Vogliono un messaggio da parte sua.»

«Per convincere il governo che mi hanno veramente? Perché hanno bisogno di convincerlo?»

Entrambi rimasero in silenzio.

«Mi dispiace,» disse lui. «Non riesco a pensare.» E si sdraiò. Sentendosi stanca e turbata dopo l'aumentata secrezione di adrenalina, Solly gli si sdraiò a fianco. Aveva fatto un cuscino con la gonna da dea. Lui non ne aveva. La coperta copriva le gambe di entrambi.

«Un cuscino,» disse lei, «più coperte e sapone. Che altro?»

«La chiave,» mormorò lui.

Rimasero distesi fianco a fianco nel silenzio e nella luce debole e costante.

Il giorno dopo, circa alle otto di mattina, secondo l'orologio di Solly, i patrioti tornarono nella stanza, in quattro. Due rimasero a guardia della porta con le pistole spianate, gli altri due stavano in piedi scomodamente in quel po' di spazio rimasto, guardando i loro prigionieri, entrambi seduti a gambe incrociate sul materasso. Il nuovo portavoce parlava il voedeano meglio degli altri. Disse che gli dispiaceva arrecare tanto disturbo alla signora, che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per farla stare più comoda. Lei doveva essere tanto paziente da scrivere un messaggio autografo per il preteso re, spiegando che l'avrebbero lasciata libera e incolume appena il re avesse comandato al consiglio di rescindere il loro trattato con il Voe Deo.