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«Non nel palazzo del Roya!» gridò dy Maroc. «Sai che queste cose si devono fare all’esterno, dy Joal! Per il Fratello, lui non ha neppure la spada… non puoi attaccarlo!»

Dy Joal esitò e Cazaril, invece di avanzare verso di lui, spinse indietro la manica sinistra, passandosi lentamente la lama del coltello sul polso, senza sentire il minimo dolore. Mentre il sangue, di un cupo color carminio, prendeva a colare lentamente alla luce delle candele, senza fiottare come avrebbe fatto se fosse stata lesa un’arteria, Cazaril ebbe l’impressione che una sorta di caligine salisse a offuscargli la vista, escludendo dal suo campo visivo tutti i presenti tranne se stesso e quel giovane stolto che aveva insistito per duellare con lui, e che ora lo stava fissando con un sorriso sempre più incerto.

Ti darò quello che volevi, ma non come lo volevi, pensò, riponendo il coltello. Davanti a lui dy Joal, che non si era ancora insospettito abbastanza, lasciò ricadere la spada nel fodero e allontanò la mano da essa.

Sorridendo, Cazaril sollevò entrambe le braccia, poi scattò in avanti senza preavviso, afferrando lo sconvolto dy Joal e spingendolo all’indietro contro la parete con tanta forza che il tonfo echeggiò lungo il corridoio. Gli intrappolò un braccio dietro la schiena e, dopo aver incastrato la mano destra sotto il mento del giovane bravaccio, lo sollevò da terra e lo bloccò contro il muro tenendolo per il collo, premendogli nel contempo il ginocchio destro contro l’inguine, in modo da impedirgli di liberare il braccio intrappolato. Disperato, dy Joal cercò di artigliarlo con la mano libera, ma Cazaril gli bloccò anche quella. Per quanto si contorcesse nella sua presa, resa scivolosa dal sangue, dy Joal non riuscì a liberarsi. Purpureo in volto, il giovane non era ovviamente in condizione di gridare, pur roteando gli occhi ed emettendo un gorgoglio indistinto, i talloni che martellavano contro la parete. Quei bravacci sapevano che le mani deformate di Cazaril di solito stringevano una penna, e avevano dimenticato che, per molto tempo, avevano anche impugnato un remo, acquisendo la forza che stava impedendo a dy Joal di liberarsi da quella stretta.

«Io non duello, ragazzo», gli ringhiò all’orecchio Cazaril, con voce abbastanza alta per essere udita da tutti. «Io uccido come fa un soldato, e cioè nello stesso modo di un macellaio, in fretta, con efficienza e col minore rischio possibile per me stesso. Se deciderò che devi morire, morirai quando e dove vorrò io, nel modo di mia scelta, e non vedrai mai arrivare il colpo che ti abbatterà.» Abbandonata la presa sul braccio libero di dy Joal, che non aveva più la forza di lottare, sollevò il polso sinistro e premette il taglio sanguinante sulla bocca tremante e socchiusa della sua vittima terrorizzata.

«Volevi tre gocce del mio sangue, per il tuo onore? Adesso le berrai.» Sangue e saliva colarono intorno ai denti tremanti di dy Joal, che tuttavia non osò neppure tentare di mordere. «Bevi, dannazione a te!» ringhiò Cazaril, accentuando la pressione e spargendo sangue su tutta la faccia di dy Joal. Per un momento, rimase come affascinato dal contrasto delle rosse scie di sangue con la pelle livida, dalla ruvidezza di un accenno di barba contro il suo polso, dalla luce intensa delle candele riflessa nelle lacrime che colavano dagli occhi fissi della sua vittima, che cominciavano ad annebbiarsi.

«Cazaril, per amore degli Dei, lasciatelo respirare!» gridò dy Maroc, angosciato, strappando Cazaril alla rossa nebbia dell’ira.

Il Castillar allentò la propria stretta, permettendo a dy Joal di respirare. Mantenendo la pressione all’inguine, serrò la mano sinistra coperta di sangue e sferrò un pugno violento contro lo stomaco del bravaccio, che si piegò su se stesso, di nuovo senza fiato, e contrasse con violenza le ginocchia. Soltanto allora, Cazaril si decise a indietreggiare e a lasciarlo andare. Accasciatosi al suolo, dy Joal si raggomitolò su se stesso, annaspando e tossendo, piangendo e non tentando neppure di rialzarsi. Dopo un momento, poi, prese a vomitare.

Scavalcato quel disgustoso ammasso di cibo, vino e bile, Cazaril avanzò verso Urrac, che arretrò, giungendo a ridosso della parete opposta.

«Io non duello», ribadì Cazaril, con voce pacata, protendendosi verso di lui. «Ma se desideri morire come un manzo, macellato con una martellata, attraversa di nuovo la mia strada.»

Nel girare sui tacchi, vide apparire dy Maroc, pallidissimo, che gli sibilò: «Cazaril, siete impazzito?»

«Mettetemi alla prova», ribatté lui, con un sorriso feroce che indusse dy Maroc a indietreggiare prontamente. A grandi passi, Cazaril si avviò lungo il corridoio, allontanandosi dal capannello di uomini, col sangue che gli colava ancora dalle dita a ogni movimento delle braccia, e uscì nel gelo notturno, chiudendosi alle spalle la porta per escludere il crescente coro di voci agitate.

Quasi di corsa, attraversò il gelido acciottolato del cortile, diretto verso il corpo principale del castello e un rifugio sicuro, il passo e il respiro che acceleravano contemporaneamente e si facevano sempre più irregolari a mano a mano che qualcosa — la sanità mentale, un terrore ritardato? — gli filtrava di nuovo nella mente. Mentre saliva le scale fu assalito poi da un violento crampo al ventre. Con dita scosse da un tremito quasi incontrollabile, afferrò la chiave per entrare nella sua camera, lasciandola cadere due volte e usando infine entrambe le mani per inserirla nella toppa. Richiusa a chiave la porta, si accasciò sul letto, gemendo e ansimando. Soltanto allora si rese conto che il corteo di spettri si era dissipato nel corso dello scontro, senza che lui se ne accorgesse. Si mise su un fianco, si raggomitolò intorno allo stomaco dolorante, e sentì la ferita al polso che iniziava a dolergli, insieme con la testa.

Alcune volte, nel pieno della battaglia, gli era capitato di vedere uomini cedere alla furia, ma, prima di quella sera, non aveva mai immaginato come ci si sentisse e nessuno gli aveva detto che si trattava di una sensazione esaltante, come quella indotta dal vino o dal sesso. Senza dubbio si era trattato di una reazione insolita, ma naturale, alla tensione nervosa e alla paura, tutte cose radunate in poco tempo e poco spazio. No, non poteva essere stata una forza innaturale a spingerlo ad agire in quel modo… Il suo comportamento non poteva dipendere dalla «cosa» che aveva nel ventre, che lo aveva provocato e ingannato, cercando di spingerlo incontro alla morte, e alla propria liberazione…

Oh.

Sapevi già che cosa avevi fatto a Dondo. Adesso sai quello che lui sta facendo a te.

17

Fu per puro caso, a tarda ora della mattina successiva, che Cazaril vide Orico oltrepassare il portone dello Zangre, diretto al serraglio, con la sola scorta di un paggio. Allora ripose in una tasca interna della sopravveste la lettera che stava portando all’ufficio della Cancelleria e si allontanò dalla Torre di Ias per seguire il Roya.

Il ciambellano di Orico aveva rifiutato di disturbarlo durante il sonnellino successivo alla colazione, ma, a quanto pareva, il Roya si era destato e stava andando a cercare conforto presso i suoi animali. Chiedendosi se il Roya si fosse svegliato in preda a un’emicrania pari a quella che stava affliggendo lui, Cazaril attraversò il cortile con passo deciso e ripassò mentalmente le sue argomentazioni. Se il Roya si fosse dimostrato timoroso di agire, allora gli avrebbe fatto notare che ciò equivaleva a cedere all’influenza malvagia della maledizione; se invece avesse affermato che i fratellastri erano troppo giovani, lui avrebbe ribattuto che lo erano troppo anche per essere convocati a Cardegoss. Fatto stava che erano lì, quindi, se non era in grado di proteggerli, almeno aveva un obbligo, sia verso di loro sia nei confronti di Chalion: doveva metterli al corrente del pericolo che correvano. Cazaril aveva poi intenzione di chiamare Umegat, perché confermasse che il Roya non poteva tenere per sé la maledizione. Non li mandate in battaglia alla cieca. Così Cazaril avrebbe implorato Orico, nella speranza che la supplica di Palli avesse sul cuore del Roya lo stesso effetto che aveva avuto sul suo. E in caso contrario… Se si addossava il compito di rivelare quel segreto, doveva parlarne prima con Teidez, in qualità di Erede di Chalion, e poi chiederne l’aiuto per proteggere sua sorella? Oppure doveva rivolgersi a Iselle, domandandone l’appoggio per gestire il più difficile Teidez? Quest’ultima strada gli avrebbe permesso di nascondere la propria complicità dietro le gonne della Royesse, ma soltanto se il segreto della sua colpa fosse sfuggito all’esame della sua mente acuta.