I quattro si avviarono lungo la collina, percorrendo le strade cittadine e scavalcando con cautela i canali di scolo centrali, puliti a causa delle piogge recenti. Ben presto, le strette vie occupate dalle botteghe cedettero il posto a piazze più ampie, circondate da case eleganti. Nello scorgere la massa incombente di Palazzo Jironal, Cazaril si trovò di nuovo a riflettere sul Cancelliere, chiedendosi quale tratto positivo del carattere di Martou dy Jironal fosse stato corrotto dalla maledizione, posto che essa avesse davvero l’effetto di distorcere le virtù personali. Forse era l’amore per la famiglia, tramutato in diffidenza nei confronti di chiunque non apparteneva a essa… O magari era la fiducia eccessiva concessa a Dondo, cosa che senza dubbio si stava trasformando in una debolezza e in uno strumento di rovina.
«Sai… spero che prevalgano i pareri più cauti e moderati», commentò d’un tratto.
«La vita di corte ti sta trasformando in un diplomatico», ribatté Palli, con una smorfia.
«Non so proprio da che parte cominciare a spiegarti in cosa mi sta trasformando la vita di corte…» accennò a replicare Cazaril, con un cupo sorriso. In quel mentre, uno dei corvi di Fonsa scese in picchiata verso di lui dal tetto di una casa vicina, lanciandosi verso la sua testa con roche strida. Cazaril lanciò un grido e si abbassò di scatto. L’uccello quasi precipitò ai suoi piedi e prese a saltellare sulla pavimentazione, gracchiando e agitando le ali, subito seguito da altri due, uno dei quali andò ad atterrare sul suo braccio proteso, stridendo e affondando gli artigli per mantenersi in equilibrio. «Dannazione a questi uccelli!» imprecò Cazaril. Ultimamente aveva creduto che essi avessero perso ogni interesse nei suoi confronti… Invece stavano ricominciando le loro imbarazzanti dimostrazioni di entusiasmo.
«Per i cinque Dei», esclamò Palli, che si era ritratto d’un balzo con una risata, indicando al di sopra dei tetti. «Qualcosa li ha messi in agitazione! Guardate, sono tutti in volo sopra lo Zangre, e girano in cerchio!»
Sollevando una mano a ripararsi gli occhi, Ferda dy Gura guardò nella direzione indicata da Palli, scorgendo un lontano vorticare di sagome nere, simili a foglie sollevate da un ciclone, che salivano e scendevano; accanto a lui, suo fratello Foix si premette le mani sulle orecchie, assordato dalle strida dei corvi che continuavano a saltellare intorno ai loro piedi.
«E sono anche rumorosi!» gridò, al di sopra di quel fragore.
Allora Cazaril si rese conto che i corvi non erano affascinati da lui, ma isterici per qualche ignoto motivo, e sentì il cuore che gli si gelava nel petto. «C’è qualcosa che non va», disse. «Venite con me!»
Non essendo nelle condizioni migliori per una corsa in salita, aveva ormai la mano premuta contro il fianco dolorante quando finalmente si avvicinarono alle stalle esterne dello Zangre, coi corvi che gli volavano intorno alla testa, come se gli facessero da scorta. Sotto il persistente stridere dei corvi si scorgevano adesso grida umane, e ciò indusse Palli e i suoi cugini a correre più in fretta.
Uno stalliere che indossava il tabarro reale proprio degli addetti al serraglio stava camminando con passo barcollante davanti alle porte aperte del serraglio stesso, col sangue che gli colava lungo il volto, e due delle guardie baociane di Teidez, riconoscibili per la livrea verde e nera, erano piazzate davanti all’ingresso con la spada sguainata, tenendo a bada tre guardie del castello, paratesi davanti a loro, la spada in pugno, ma esitando ad attaccare. I corvi però non avevano simili remore e continuavano a scendere in picchiata, tentando di colpire con gli artigli e col becco i due baociani che, imprecando, li tenevano lontani con la spada; due fagotti di penne nere giacevano già sull’acciottolato, uno ormai immobile, l’altro che sussultava ancora.
«Nel nome del Bastardo, cosa sta succedendo qui?» ruggì Cazaril, avanzando a grandi passi verso il serraglio. «Come osate uccidere i corvi sacri?»
«State indietro, Lord Cazaril!» ingiunse uno dei due baociani, puntandogli contro la spada. «Non potete passare! Abbiamo ordini precisi del Royse.»
Le labbra ritratte sui denti in una maschera di furia, Cazaril spinse da parte la spada col braccio avvolto nel mantello e scattò in avanti, strappando l’arma dalla mano della guardia. «Dammela, razza di stolto!» ringhiò, scagliando l’arma sull’acciottolato, nella direzione in cui si trovavano le guardie dello Zangre e Palli, il quale aveva estratto la spada, in preda al panico nel vedere l’amico lanciarsi disarmato nella mischia. Tintinnando rumorosamente, la spada continuò a scivolare sull’acciottolato, ruotando su se stessa, sinché Foix non la bloccò, piazzandovi sopra un piede calzato di stivale e guardandosi intorno, come a sfidare chiunque intendesse recuperarla.
Cazaril si girò verso il secondo baociano, che lasciò cadere immediatamente la propria arma e si ritrasse davanti a lui con timore. «Castillar! Stiamo facendo questo per preservare la vita del Roya Orico!» si affrettò a gridare l’uomo.
«Cosa state facendo? Orico è là dentro? Che succede?»
Dall’interno dell’edificio giunse allora un ringhio felino che si trasformò in una sorta di miagolio lamentoso, un suono che indusse Cazaril a girarsi di scatto e a lasciare gli intimiditi baociani alla custodia delle guardie dello Zangre, ora incoraggiate ad avanzare, per addentrarsi nell’ombroso corridoio del serraglio.
Il vecchio stalliere privo di lingua era in ginocchio sulle piastrelle, piegato su se stesso, e singhiozzava, premendosi le mani prive dei pollici sul volto, col sangue che gli filtrava tra le dita. Nel sentire il rumore dei passi di Cazaril, l’ometto sollevò la testa con espressione disperata, la bocca contorta in una smorfia di sgomento. Oltrepassando di corsa le gabbie degli orsi, Cazaril intravide due masse nere inerti, crivellate di quadrelle e con la pelliccia imbrattata di sangue; sull’altro lato, i recinti dei velia erano aperti e le povere bestie giacevano tutte riverse su un fianco sulla paglia, con gli occhi aperti e fissi, e la gola tagliata.
Arrivando in fondo al corridoio, Cazaril vide infine il Royse Teidez che si stava sollevando dal corpo ormai inerte del leopardo. Puntellandosi sulla spada, il giovane si appoggiò su di essa col respiro affannoso, un’espressione di selvaggia esultanza dipinta sul volto, inconsapevole del manto d’ombra che gli vorticava intorno come un nembo temporalesco nel cielo notturno. «Ah!» esclamò il Royse, con un selvaggio sorriso, vedendo sopraggiungere Cazaril.
Il capitano delle guardie baociane, che aveva ancora in mano un piccolo uccello col collo spezzato; sbucò a precipizio dalla voliera per bloccare il passo a Cazaril; alle sue spalle, ammassi di penne colorate di tutte le dimensioni, uccelli morti o morenti, costellavano il pavimento della voliera, alcuni con le ali che ancora si agitavano in un ultimo rantolo.
«Fermo, Castillar…» tentò d’intimare il capitano, ma la voce gli si spense in gola quando Cazaril lo afferrò per la tunica e lo fece ruotare su se stesso, scagliandolo a terra davanti a Palli, che lo stava seguendo da presso con espressione attonita e sgomenta. Le sue labbra si muovevano, continuando a formulare le parole: «Lacrime del Bastardo, lacrime del Bastardo…» le stesse che lui mormorava a Gotorget nel corso delle battaglie, quando la sua spada si abbatteva sugli uomini che si arrampicavano lungo le scale d’assedio, e la stanchezza era tale da non lasciare fiato per le grida di guerra.
«Trattienilo», gli ringhiò Cazaril, da sopra la spalla, avanzando a grandi passi verso Teidez.
Gettando indietro il capo, il giovane Royse incontrò e sostenne il suo sguardo. «Adesso non potete più fermarmi… ce l’ho fatta!» esclamò. «Ho salvato il Roya!»
«Cosa… cosa… cosa…» balbettò Cazaril, così atterrito e furioso da non riuscire a formulare parole coerenti. «Stolto ragazzo! Quale sorta di follia distruttiva è mai questa…?» gridò infine, allargando le mani tremanti e indicando il massacro che aveva intorno.